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Sanzioni contro Erdogan. Washington prova a uscire dal pantano turco in Siria

Nella serata di venerdì il segretario al Tesoro statunitense, Steve Mnuchin, ha annunciato che l’amministrazione Trump avrebbe dato al suo dipartimento “nuove importanti autorità sanzionatorie” che potrebbero colpire “qualsiasi persona associata al governo della Turchia”, ergo pure il presidente (al Congresso stanno già lavorando a un quadro legislativo). Gli Stati Uniti stanno cercando di contenere gli effetti potenzialmente devastanti prodotti dall’avvio della missione “Fonte di Pace” in Siria con cui Ankara intende liberare dal controllo dei curdi un corridoio profondo 30 chilometri e lungo tutto il confine siriano. Washington è coinvolto per tre ragioni.

Primo, l’avvio alla campagna turca è arrivato dopo che il presidente Donald Trump ha avuto una conversazione telefonica con il collega Recep Tayyp Erdogan alla fine della quale l’americano ha appoggiato parzialmente l’idea del turco, qualcosa che doveva restare confidenziale, ma poi non ha resistito e ha trasformato uno spostamento limitato di alcuni militari da quelle aree in un ritiro dalla Siria da poter rivendere agli elettori, a cui aveva promesso la fine di queste “guerre inutili” fin dalla campagna elettorale.

Che qualcosa sia andato storto lo testimonia la corsa successiva, annaspata e senza una direzione netta, a rattoppare la situazione: i messaggi duri per ammonire Ankara coincidevano con dichiarazione sulla bontà dell’alleanza, quelli sgangherati contro i curdi (alleati sì, ma dov’era o quando noi sbarcavamo in Normandia, ha detto Trump con una boutade venuta male) chiudevano con un “siete grandi”, il Pentagono cercava di dare un senso tattico alla situazione, il mondo incolpava Trump di aver dato modo a Erdogan di rendere operativo un piano terribile di ingegneria etnica al nord siriano (col raro effetto di aver raggruppato idealmente nelle critiche contro di lui l’Ue, la Russia, Israele, l’Iran e il mondo arabo), la nenia idealista pro-curdi (fedeli alleato contro l’Is) abbandonati all’atroce destino voluto da Erdogan.

La seconda ragione per cui gli Stati Uniti sono coinvolti è ancora più diretta. Ieri, alle nove di sera, dei colpi dell’artiglieria sono caduti nei pressi di una base americana che si trova sulla collina appena a nord di Kobane (ricordate Kobane? I fumetti di Zerocalcare, le ragazze curde del Jpg che combattevano con i fazzolettoni colorati, gli aerei della Coalizione a guida Usa che obliteravano una colonna di mezzi del Califfato che cercava di conquistare la città: era diventata il simbolo della lotta contro le barbarie baghdadiste, e i curdi erano la l’impronta iconografica che rendeva tutto affascinante. Ora che è tornata a una normalità flebile è di nuovo sotto le bombe di un aggressore, stavolta non il Califfo ma il Sultano).

Non ci sono stati feriti nel bombardamento che ha coinvolto gli americani (ieri si parlava di un morto, ma erano notizie frammentarie): è evidente comunque che la situazione sta diventando imbarazzante. Gli operatori delle forze speciali americane (probabilmente Berretti Verdi o Delta, gli stessi che anni fa combattevano l’Is con addosso le mimetiche con le insegne dell’Ypg curda) hanno chiaramente comunicato la loro posizione ai turchi, ma quelli hanno attaccato lo stesso la base, che era una postazione del Security Mechanism, un sistema di monitoraggio del confine creato ad agosto proprio da Washington e Ankara all’interno del quale i curdi avevano accettato di ritirarsi da certe posizioni. Il Pentagono ha diffuso una nota in cui spiega che i soldati Usa resteranno là: è un avvertimento pubblico, significa ammonire Ankara: non andate oltre. Pochi minuti dopo è arrivata la dichiarazione di Mnuchin sulle sanzioni.

La terza delle questioni che coinvolge direttamente gli americani nell’offensiva turca riguarda lo Stato islamico, nello specifico i combattenti e i leader fatti prigionieri (con le loro famiglie) in questi anni e finora detenuti in campo di prigionia curdi. Ieri la Stampa ha intervistato Nessrin Abdalla, comandante delle Ypg, che ha dichiarato — non senza propaganda — che i turchi stanno volutamente cercando di colpire quei campi per creare scompiglio (“vogliono far rinascere l’Isis”, dice Abdalla, ma è improbabile che Erdogan abbia questo genere di interesse diretto, visto che il suo paese è stato martoriato dagli attentati del Califfato).

Il problema c’è: ieri sono circolate immagini di uno di questi centri di detenzione (quello di Al Hol) da cui i prigionieri cercavano di fuggire. La questione è nota ed è stata più volte segnalata: due giorni fa è stata posta sotto forma di domanda a Trump, che ha risposto (con un’altra boutade venuta male) che non se ne preoccupava granché perché tanto quei terroristi sarebbero andati in Europa. La risposta  trumpiana è da ricollegare — oltre che al rapporto conflittuale che il presidente ha con gli alleati europei — a una pressione che gli Stati Uniti fanno da tempo, chiedendo ai partner di farsi carico dei prigionieri di propria cittadinanza. Intanto, l’altro ieri Trump ha dovuto ammettere la falla tra le sue uscite e la realtà annunciando con un tweet che due dei Beatles, i boia inglesi del Califfato, erano stati presi sotto custodia dagli americani — e con loro, dicono i media, altre decine di comandanti baghdadisti.

C’è una quarta ragione/bonus che determina la dimensione profonda dell’impantanamento americano nella situazione, ed è a sfondo Nato. L’articolo 1 del trattato dell’Alleanza Atlantica dice che nei loro rapporti internazionali gli stati membri devono “astenersi dall’uso della forza” con modalità incompatibili con i principi delle Nazioni Unite. Tecnicamente la Turchia sta invadendo la Siria, quello che sta facendo non è troppo diverso da quanto fatto dalla Russia con la Crimea. Ieri gli obici turchi sono stati diretti contro i soldati americani.

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