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Cosa resta a 30 anni dalla caduta del muro di Berlino. Il ricordo di Vincenzo Scotti

Un mondo nuovo? Certo, la caduta del muro di Berlino ha tracciato, simbolicamente, uno spartiacque tra il “prima” e il “dopo”. Link Campus University l’8 novembre alle 15 avvia, presso la propria sede con Sioi e Fondazione Economia Tor Vergata, un processo di ricerca sulle cause e sulle conseguenze che hanno portato e che si sono generate da quell’avvenimento.

La caduta del muro di Berlino è stata tutt’altro che un evento non previsto. Essa, anzitutto, ci mostra il crollo dell’ultimo totalitarismo del novecento, quello sovietico. Ciò comportò, come nota efficacemente lo storico delle relazioni internazionali Ennio Di Nolfo, il fatto che il cosiddetto “mondo libero”, Stati Uniti in testa, si ritrovò senza nemico e, dunque, “disarmato” di fronte a tutte le contraddizioni che un mondo improvvisamente fattosi complesso mostrava.

Non che quelle contraddizioni non fossero presenti anche prima ma, nell’equilibrio bipolare e in una “pace armata”, non esplodevano, restavano nascoste sotto il “tappeto” dello scontro tra i due blocchi. Lo Stato, simbolicamente, dovette condividere la propria centralità strategica con altri player globali che, negli anni successivi, si sarebbero affermati e consolidati: le imprese multinazionali, le grandi Ong, le Chiese, le reti criminali transnazionali, le reti terroristiche.

In quegli anni si riaffermò, come accade ciclicamente nella storia, il tema della “fine della storia”. Così si pensò che la democrazia liberale e il capitalismo di mercato avrebbero dominato il mondo e che, per il solo fatto di essere “applicati” (molto spesso a prescindere dai contesti), avrebbero “inondato” il mondo di pace, di giustizia e di benessere. Il tempo, al contrario, ci ha mostrato che la storia è tornata.

L’Europa, in quel tempo, mancò una straordinaria possibilità. Voglio qui ricordare che, in data 25 ottobre 1989 insieme ai rappresentanti di tutti i gruppi parlamentari, presentammo alla Camera dei Deputati una mozione che impegnava il governo, richiamando il referendum svoltosi il 18 giugno di quell’anno in concomitanza con le elezioni del Parlamento europeo e che raccolse l’88,1 per cento dei suffragi, a far iscrivere all’ordine del giorno del Consiglio europeo dell’8 e 9 dicembre l’esame sull’attuazione e sul funzionamento dell’atto unico europeo. Si sottolineava, in quella mozione, che la straordinaria occasione offerta al mondo dalle trasformazioni in corso nell’Europa centrale e orientale impone responsabilità direttamente politiche ai Paesi della Cee e alla Comunità in quanto tale.

La votazione finale sulla mozione, che seguì una discussione di altissimo livello politico con la partecipazione attiva del presidente del Consiglio Giulio Andreotti, mostrò una unità d’intenti di tutti i partiti presenti in Parlamento. In un momento in cui sarebbe stato difficile immaginare una convergenza di partiti che, dalla rivoluzione d’ottobre, erano stati in un radicale conflitto politico e ideologico, si arrivò a un risultato che dava al governo una forte rappresentanza del Paese in Europa e nel mondo. Fu un segnale politicamente chiarissimo, di una classe politica che – insieme e guardando a ciò che sarebbe accaduto da lì a pochi giorni – capiva che era venuto il tempo di una Italia unita in una Europa unita e davvero democratica. Negli anni che seguirono, quello spirito si esaurì e la realtà di oggi ci chiede di tornare a una politica degna del suo nome, che sia capace di anticipare i fenomeni storici e di rivalutare una mediazione che, troppo spesso, confondiamo con il compromesso.

Allora, nell’euforia seguita alla implosione del regime sovietico e sostanzialmente dimenticando visioni di realismo politico, si avviò l’attuale processo di globalizzazione e, non senza errori, si pensò che un mercato auto-regolantesi avrebbe d’un colpo cancellato tutte le difficoltà legate a uno “statalismo” opprimente. Si affermò l’idea di una “terza via”, si cominciò a parlare di governance in luogo di governo politico e – non solo in Italia – le comunità politiche, riferite a ideologie che non c’erano più, pagarono un prezzo alto. Forse, allora, si corse troppo e non si accompagnò culturalmente e politicamente quella transizione così delicata.

Le “Chiese laiche”, i regimi dei Paesi che appartenevano all’orbita sovietica, cominciarono un percorso di acquisizione della democrazia e delle logiche di mercato che, però, non fu accompagnato dalla consapevolezza necessaria ad acquisire i principi democratici, a cominciare dall’“uso” della libertà, e le logiche economiche della concorrenza e della competizione.

Gli anni successivi alla caduta del muro ci hanno consegnato il ritorno della storia. La democrazia andavano assumendo forme nuove e un sistema come la Cina diventava attore di riferimento attraverso una forma “spuria” di capitalismo applicata a un regime fortemente statalista. L’11 dicembre del 2001 la Cina entrava nel Wto e ciò portò a una “tempesta” nelle relazioni (non solo) economiche a livello internazionale; l’euforia del post-caduta del muro non era stata accompagnata da regole sovranazionali.

Si affermava la società digitale che, oggi, è diventata una realtà quotidiana che esprime grandi potenzialità e altrettanti rischi. Siamo nel cyberspazio, “immersi” in una metamorfosi che va nuovamente compresa anche alla luce delle innovazioni che il nostro tempo ci sta consegnando (si pensi all’intelligenza artificiale, al “machine learning” e al 5G), al contempo strumenti e ragioni di nuove sfide strategiche tra gli attori globali (Stati Uniti e Cina in particolare).

L’8 novembre, con importanti testimoni ed esperti, cominceremo una riflessione che, nei prossimi mesi e con metodo transdisciplinare, vorrà toccare i nodi sensibili di una transizione che, dall’8 novembre 1989, sembra ancora in buona parte irrisolta.

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