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Il caso Bio on non blocchi la finanza innovativa per le pmi

L’Associazione europea mercati finanziari – Afme ha di recente evidenziato che, nel 2018, le Pmi italiane hanno raccolto solo 1,2 miliardi di euro di capitale di rischio a fronte di circa 180 di prestiti bancari. In altre parole, il capitale di rischio costituisce solamente lo 0,6% del flusso annuale dei finanziamenti, ben al di sotto della media europea non solo molto più elevata (2,60%), ma anche in notevole espansione (+ 8% dei fondi di private equity, +12% venture capital, + 24% crowd funding).

Il punto è che questa spiccata dipendenza delle nostre imprese dal credito bancario deriva proprio dal fatto che il settore bancario italiano ha sempre supportato negli anni le imprese, specialmente quelle medio piccole. Lo dimostra la regola del 70/30 che evidenzia come i sistemi bancari mediterranei mediamente dedichino al supporto delle aziende il 70% dei loro impieghi, riservando alla finanza il residuo 30%. Proprio il contrario di quanto fanno le banche anglosassoni che invertono la proporzione dedicando il 70% alla finanza (derivati, poste illiquide di livello 3 etc) e solo il 30% al lending a favore delle aziende.

Il guaio è che la citata regola ha generato un vero paradosso italiano: le nostre imprese, proprio perché hanno sempre potuto fare affidamento sugli istituti, non hanno mai avvertito una vera necessità di attivare canali alternativi alla fonte bancaria. La conseguenza diretta è stata, contrariamente a quanto avvenuto all’estero, una scarsa iniezione di capitale nelle aziende e l’assenza di un efficiente mercato dei bond corporate da sempre riservato solo ad uno sparuto gruppetto di aziende quotate. Purtroppo, però, così facendo, le nostre Pmi si sono trovate sempre più strette in una morsa costituita, da una parte, dalla più profonda crisi del dopoguerra e, dall’altra, dagli accordi di Basilea. In particolare, questi ultimi sono scesi in campo imponendo alle banche un progressivo passaggio da un credito di vicinanza (in senso buono) ad un credito erogato all’interno di un corridoio delimitato da un sistema di rating interni sempre più efficiente.

Dunque, in questo scenario, quantomeno le Pmi più innovative e con maggior tasso di sviluppo, si trovano al centro di un sistema di forze contrapposte nell’ambito del quale l’imprenditore deve fare una scelta: continuare ad appoggiarsi al 90% al settore bancario o, invece, abbinare al canale bancario canali decisamente più innovativi. Tra l’altro, la gamma di questi ultimi è ormai abbastanza ampia e spazia dall’entrata in un programma di tutoraggio che supporti l’azienda nella fase di crescita (ad esempio il programma Elite di Borsa italiana), alla quotazione in un mercato meno complesso per una Pmi come può essere l’Aim. Passando, magari, per l’emissione di minibond.

Tuttavia, in realtà, l’imprenditore non è affatto tenuto ad effettuare una scelta “aut aut”, visto che le due fonti di approvvigionamento possono tranquillamente coesistere senza per questo dover fare acrobazie senza rete. Anzi, a ben vedere, la fonte innovativa non solo non esclude il rapporto con la banca, ma lo contagia positivamente rendendolo più solido e trasparente. Ad esempio, una Pmi che decidesse di cimentarsi nell’emissione di minibond o di guardare alla quotazione all’Aim dovrebbe necessariamente organizzarsi per individuare, elaborare e comunicare tutto un insieme di dati aziendali prima non lavorati o comunque tenuti riservati.

Il punto è che tutto questo lavoro non solo fa crescere internamente l’azienda, ma rafforza anche il rapporto con la banca perché consente a quest’ultima di “conoscere” l’azienda. Ad esempio, la vigilanza spinge sempre di più gli istituti a non soffermarsi solo sul classico bilancio dell’azienda, ma a dare maggiore peso alla valutazione dei flussi di cassa prospettici. Lo scopo è quello di capire la reale capacità dell’azienda di sostenere prospetticamente il servizio del debito senza generare pericolose tensioni di cassa.

Ora, è evidente che se si inizia a guardare avanti e non più nello specchietto retrovisore, le informazioni sul piano industriale, sui programmi di investimento dell’azienda, nonché sulle previsioni relative al settore diventano fondamentali. In quest’ottica, l’impresa si abitua a preparare business plan più dettagliati ed attendibili e la banca, da parte sua, affina la sua capacità di valutarli correttamente superando la tentazione di fare tagli lineari alle previsioni aziendali. La conoscenza diventa dunque fattore strategico fondamentale. Senza trascurare che anche il rating dell’azienda può migliorare nel medio periodo in presenza di una apertura alla finanza innovativa. Ad esempio, un maggior equilibrio delle fonti ottenuto grazie alla rimodulazione tra l’indebitamento a breve e l’emissione di un minibond a 3 /4 anni, può influire positivamente sul rating con benefici per l’azienda in termini di accesso al credito, migliori condizioni, accessibilità a prodotti più sofisticati. Ciò detto, bisogna oggi evitare che il caso del default Bio-on, che ha scosso l’Aim, interrompa bruscamente questo processo. Si potrà certamente rivedere alcuni ruoli e rendere più efficaci alcuni controlli, tuttavia, se si vuole che le nostre migliori Pmi restino competitive, non si può marchiare a fuoco tutta la finanza innovativa con la dicitura hic sunt leones.


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