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Eu in breve. Il meglio della settimana da Bruxelles

La saga della Commissione Von Der Leyen si arricchisce di nuovi capitoli. Dopo la bocciatura di tre commissari – i candidati ungherese, rumeno e francese – e la conferma di due delle nuove proposte – la romena Adina Valean ai trasporti e il francese Thierry Breton ai mercati interni –, lunedì è stato finalmente approvato l’ultimo commissario incaricato ancora in sospeso: Oliver Varhelyi, già ambasciatore ungherese presso l’Ue, che si vedrà assegnato il portafoglio dell’allargamento. Di fronte ai parlamentari europei, l’audito si è sforzato di dimostrare la propria autonomia e indipendenza da ogni possibile interferenza di Orbàn e, per di più, ha dovuto chiarirlo per iscritto in due diverse occasioni. Un contraddittorio con la Commissione Affari Esteri del Parlamento europeo che ha lasciato tutti con il fiato sospeso.

In punto di diritto, tuttavia, resta ancora aperta la questione del Commissario britannico: se la Brexit, come vuole Boris Johnson, si dovrà fare a tutti i costi entro il 31 gennaio, possono i britannici rifiutarsi di nominare il loro commissario? Nell’attesa di avere un responso dagli aruspici del Consiglio, la Commissione ha aperto una procedura di infrazione contro Londra. Difficile, dati i tempi della burocrazia europea, convincere Johnson a cooperare.

In ogni caso, salvo qualche colpo di scena, dopo un mese di ritardo la prima commissione presieduta da una donna dovrebbe ricevere il voto definitivo dal Parlamento e cominciare i propri lavori dal primo di dicembre.

E proprio la questione dell’allargamento, del resto, sarà un tema delicato nei prossimi mesi nonché possibile terreno di scontro fra Stati membri. Se da un lato il Partito Popolare Europeo e l‘Italia stanno attivamente supportando la riapertura delle negoziazioni per l’adesione della Macedonia del Nord e dell’Albania, due Paesi tradizionalmente inclini al dialogo con lo Stivale, dall’altro lato, Macron ha posto un veto, condizionando ogni futuro allargamento a un ripensamento delle modalità di adesione all’Unione Europea. L’Eliseo, infatti, spinto da motivazioni di politica interna (segnatamente, la necessità di respingere l’ondata populista dei gilet gialli), deve mostrarsi ostile all’accoglienza nel club europeo di Stati i cui standard economici, giuridici e di diritti umani (il cd. acquis communautaire) siano reputati ancora insufficienti. Da qui la proposta francese di aggravare i requisiti per l’ingresso introducendo una procedura a sette gradini: questa implicherebbe, tra l’altro, che qualora il processo di armonizzazione delle leggi del Paese candidato dovesse subire un arretramento, si attiverebbe una sorta di clausola di reversibilità che porterebbe l’adesione nuovamente alla casella di partenza (qui il “non-paper” circolato informalmente a Bruxelles).

Resta da vedere, peraltro, come si comporterà il futuro commissario ungherese dinanzi alla questione scottante del suo Paese, accusato di non rispettare lo Stato di diritto, i principi di democrazia e uguaglianza, nonché di porre in essere una permanente violazione del diritto di pensiero e della libertà accademica. Sotto scrutinio da parte del Consiglio nella sua formazione dei ministri degli Affari europei, Orbàn deve fronteggiare la procedura ex art. 7 Tue. Il prossimo 10 dicembre ci sarà una seconda audizione, dopo quella del ministro della Giustizia di Budapest. Se la procedura giungesse a termine, stabilendo la violazione dei valori europei, l’Ungheria perderebbe i propri diritti di membro dell’Unione Europea, ad esempio il fondamentale diritto di voto.

Di questi valori, peraltro, si è fatto portavoce da ultimo Donald Tusk, eletto presidente del Partito Popolare Europeo al congresso di Zagabria. L’ex premier polacco ha declamato con vigore che il Ppe si batterà per la lotta contro i populismi e per il rispetto dei diritti umani e della democrazia. Tra le righe, dunque, continuano le frizioni con Fidesz, il partito governativo ungherese, membro sospeso del Ppe in attesa di conoscere la propria sorte. Tusk ha annunciato che l’indagine interna del Ppe, volta a valutare se Fidesz rispetti le condizioni per far parte della federazione europea, si concluderà a gennaio. Se si dovesse optare per l’espulsione degli ungheresi, non è escluso che la proposta di mediazione, avanzata da Silvio Berlusconi a Zagabria, per favorire l’ingresso dei leghisti nella famiglia dei popolari non possa essere valutata con interesse. La consistenza numerica degli europarlamentari che si perderebbero con Fidesz potrebbe invogliare a nuove campagne acquisti.

Non è detto, d’altra parte, che sia ricambiato l’interesse della Lega a farsi traghettare in un partito a trazione Merkel: Matteo Salvini ha, infatti, annunciato che il 2 dicembre sarà ad Anversa, dove interverrà ad un evento dei nazionalisti fiamminghi del Vlaams Belang assieme ai colleghi del partito europeo Identità e Democrazia. Le “sardine” sono dietro l’angolo, visto che si prevede una loro contromanifestazione.

Se il Parlamento Europeo fa sempre notizia, c’è però chi si duole che nell’architettura istituzionale dell’Unione l’unico consesso realmente democratico resta sempre un passo indietro. Antonio Tajani, riconfermato vicepresidente del Ppe, ha rimarcato in una recente intervista con EuObserver la necessità che il Parlamento europeo sia finalmente dotato dell’iniziativa legislativa, potere che oggi spetta solo alla Commissione. Sembra assurdo, infatti, che nonostante i Mep siano scelti dal corpo elettorale europeo, una volta eletti non dispongano, a differenza degli omologhi nazionali, del diritto di avanzare proposte legislative. Queste, infatti, sono già preconfezionate dalla Commissione con meccanismi poco trasparenti, dopo un dialogo con lobby e portatori di interessi, dando argomenti plausibili a chi contesta il deficit democratico dell’Unione. Ottenere il diritto di iniziativa del parlamento, così come anche un potere di inchiesta, dice Tajani, è un obiettivo ambizioso ma necessario ad aumentare il livello di partecipazione dei 514 milioni di cittadini Ue. Una riforma giusta ed auspicabile che, se concretizzata, potrebbe cambiare il futuro dell’Europa.

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