Ormai è ufficiale: a palazzo Chigi c’è nostalgia del vecchio “contratto” di governo che ha garantito un anno di sopravvivenza alla maggioranza gialloverde. Gli appelli per un ritorno ai patti scritti nero su bianco non sorprendono. Dall’Ilva alla manovra, da Alitalia al Mes, fra Pd e Cinque Stelle la scintilla non è mai davvero scoccata. Le divergenze fra alleati sulla politica economica non sono certo una novità per la politica italiana. Novembre e dicembre, poi, sono da sempre i mesi più caldi dell’anno. La legge di stabilità è in dirittura d’arrivo, e fra migliaia di emendamenti last minute e vertici lampo in tarda serata ognuno cerca di portare acqua al suo mulino.
Diverso è il caso in cui il governo si trova diviso in due sulla linea di politica estera. Perché il Paese è uno solo, e una è la direzione diplomatica che si può tracciare. Su questo terreno la maggioranza giallorossa rischia seriamente di scivolare. La condiscendenza del Movimento Cinque Stelle nei confronti della Cina è l’avvisaglia più eloquente del cortocircuito in arrivo.
Al partito fondato da Gianroberto Casaleggio va il copyright del memorandum sulla via della Seta firmato a marzo a Roma alla presenza del presidente cinese Xi Jinping. E così le aperture all’azienda tech cinese Huawei, bandita dagli Stati Uniti ma accolta con tutti gli onori dai pentastellati, che organizzano convegni e convention da più di un anno, l’ultima con Davide Casaleggio a Milano.
Perfino sulle proteste di Hong Kong represse a suon di arresti il Movimento è riuscito a schierarsi senza se e senza ma con Pechino. “L’Italia non vuole intromettersi nelle vicende interne di altri Paesi” ha chiosato il ministro degli Esteri Luigi Di Maio. È stato di parola: quando il governo cinese ha impedito al leader dei dissidenti di Hong Kong Joshua Wong di venire a un convegno a Milano non una voce si è alzata dalla Farnesina. Il blitz di due ore e mezzo di Beppe Grillo all’ambasciata cinese, di cui non è stato fatto trapelare nulla, è solo l’ultimo episodio di una linea politica che di episodico ha ben poco.
Discorso analogo si può fare per l’Iran, che soffoca con la violenza le manifestazioni di piazza per l’aumento del caro vita e stacca la connessione internet, e ciononostante trova a Roma, e nel Movimento Cinque Stelle, un porto sicuro.
Una domanda sorge spontanea. Il Pd ha qualcosa da ridire? Un partito che ha alle spalle una lunga esperienza di governo e negli anni ha tessuto una fitta rete di rapporti internazionali, che ha sempre fatto di questo protagonismo all’estero un vanto, oggi tace. Solo due settimane fa il segretario Nicola Zingaretti si è immerso in un tour istituzionale a Washington DC non banale, con incontri del calibro di Nancy Pelosi e Bill Clinton. Ora assiste inerte alle brusche virate dell’alleato di governo. E alla Farnesina, dove Di Maio non ha ancora distribuito le deleghe, i dem rimangono all’angolo, pur avendo membri di primo piano del partito alla guida del ministero come il viceministro Marina Sereni e il sottosegretario Ivan Scalfarotto.
Nessuno si attende o ritiene utile una presa di posizione tout court “contro” l’Iran o “contro” la Cina dalla forza politica che ha contribuito (anche tramite l’Alto rappresentante Pesco dell’Ue Federica Mogherini) al raggiungimento dell’accordo sul nucleare iraniano (Jcpoa) del 2015 e da sempre vanta buoni rapporti con l’Ex Celeste Impero. Ci si aspetterebbe, invece, un intervento per arginare quantomeno gli eccessi del protagonismo a Cinque Stelle in politica estera ed evitare che lascino un’orma indelebile sulla postura del Paese.
Due mesi fa il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha chiarito che questo è l’ultimo governo della legislatura. Non è da escludere che in queste ore il Quirinale, da sempre attento a tenere in equilibrio il baricentro diplomatico del Paese, stia osservando con attenzione anche queste evoluzioni.