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I conservatori alla guerra delle parole. Il commento di Ocone

Cosa hanno in comune nazionalismo e liberalismo? Ovviamente per rispondere a questa domanda occorrerebbero fiumi di inchiostro, oltre che una puntuale conoscenza della migliore bibliografia sul tema. Non è questa la sede. Intanto, si può dire che nazionalismo e liberalismo hanno perso ultimamente perso la “guerra delle parole”: il primo è generalmente un termine screditato, il secondo lemma se non è proprio screditato è certo sempre più assunto in un significato diverso da quello che a mio avviso gli spetta.

Sul primo punto, interviene ora nel dibattito italiano Yoram Hazony, il cui libro su Le virtù del nazionalismo, dopo il rumore fatto l’anno scorso nel mondo anglosassone, esce, tradotto da Vittorio Robiati Bendaud, per Guerini e Associati. Oggi quando si parla di nazionalismo si aggiunge, quasi a voler calcarne il senso negativo che gli si attribuisce, l’aggettivo “aggressivo”. Ad esso, nel mainstream culturale, si oppone una prospettiva cosmopolitica, o comunque sovranazionale, e individualistica: l’uomo libero di autodeterminarsi (apparentemente), senza radici e identità, solo davanti a un Regolatore Unico e Astratto che si tende a far coincidere sempre più con un tendenziale Stato Unico Amministrativo a base mondiale. Ora, storicamente, la Nazione ha svolto invece proprio quel ruolo di cerniera o mediazione fra l’individuo e il potere in cui è maturata la libertà, soprattutto quella “dei moderni” che ben conosciamo.

Il suo nemico, come ci illustra Hazony nelle magistrali pagine del suo libro, è stato l’Impero, che proprio come collettore di diverse nazionalità si è posto: le stesse tragedie novecentesche, di solito imputate al “nazionalismo aggressivo”, sono invece ricondotte dallo storico e teorico israeliano alla forza espansiva di Stati imperiali o tendenti ad assumere questo ruolo. Il nazionalismo genuino si è opposto a questa tendenza e si è ricondotto alla più pura tradizione ottocentesca, quella in cui sotto le sue insegne si sono affermate la libertà (anche e soprattutto costituzionale) e l’indipendenza (e autodeterminazione) dei popoli schiacciati o sottomessi.

La prospettiva di Hazony è diversa perciò da quella di Ernesto Galli Della Loggia che, in un fondo uscito l’altro giorno sul Corriere della sera, ha distinto il risorgente nazionalismo attuale, protettivo e introflesso, da quello classico che sarebbe stato stato invece estroflesso e espansionistico. Nè Galli Della Loggia né Hazony parlano invece di sovranismo, che è un termine spesso usato polemicamente dagli antinazionalisti per indicare in sostanza una sorta di chiusura e pericolosa diffidenza verso l’ “altro” da parte degli avversari. In positivo, lo intende invece, e se ne appropria, Marco Gervasoni, autore di un agile e colto pamphlet appena pubblicato dall’editore Giubilei Regnani: La rivoluzione sovranista.

L’autore definisce il sovranismo come il vasto e vario movimento che tende a far sì che i popoli e le nazioni si riprendano la sovranità che avrebbero perso negli ultimi tempi ad opera di organizzazioni e forze sovranazionali (a iniziare dall’Unione Europea). Ritornando ad Hazony, è interessante considerare come egli usi il termine liberalismo nel modo in cui lo usa attualmente il pensiero medio-comune e che io, sulla scia di una lunga tradizione, non credo sia quello più corretto. Per lo storico e teorico israeliano, si tratterebbe di “una teoria politica, di impronta razionalista, basata sull’assunto che gli esseri umani siano liberi ed eguali per natura”. Esso pretenderebbe perciò che “i suoi precetti siano considerati universali, dunque valevoli e applicabili sempre e ovunque”. In verità, al liberalismo storicamente si è associata sempre una forte venatura scettica e antiperfezionistica (erede della tradizione cristiana col suo dogma del 2peccato originale”), critica del razionalismo astratto, e consapevole dell’importanza delle forze concretizzanti della libertà: la storia e la politica. Montaigne, Hume, Tocqueville: questi i campioni del pensiero liberale.

E Il liberalismo non è definibile in astratto, segnalando piuttosto l’esigenza di tenere sempre aperta la tensione fra le polarità opposte che costituiscono la vita umana e delle umane società. Il nostro Benedetto Croce, come ci ricorda Eugenio Di Rienzo, nel suo libro Gli anni dello scontento. 1943-1945, uscito da poco per Rubbettinoera tutto il contrario del liberal, né la sua figura può esseere fatta entrare in un pantheon progressista e democraticista (come pure è stato fatto). Egli era occidentalista e atlantista, anticomunista oltre che antifascista, ma era ben consapevole che senza difendere (ad esempio nei “trattati di pace”) la dignità della nazione e della Patria italiane anche la libertà sarebbe andata in crisi. Un’ultima domanda: come si pone il conservatorismo in questo discorso? Sicuramente, esso è oggi un buon antidoto al predominio della mentalità progressista, così come lo fu per Burke e Cuomo dopo i furori della Rivoluzione francese. Esso poi non è affatto chiuso all’innovazione , come ci insegna Scruton, che è forse il suo massimo teorico contemporaneo: vuole semplicemente che essa si radichi in una tradizione e si sviluppi dialetticamente, cioè umanamente. Per come lo concepisco io, il conservatorismo è anche fatto di “buone maniere” e educazione, secondo il modello dei galantuomini old england. Si può, e anzi si deve, essere politicamente non corretti, o meglio anticonformisti, ma senza scadere nei difetti che abbiamo sempre imputato agli avversari: la delegittimazione morale di chi la pensa diversamente, la faziosità, il manicheismo, la non distinzione fra idee e persone, al limite lo hate speech.


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