“Naturalmente sono bufale, in questo caso noi le definiamo così e come tali le gestiamo”, ha detto alla stampa a Mosca Dmitri Peskov, portavoce del presidente Vladimir Putin. Parlava della presenza russa in Libia, che in questo momento è il centro dell’attenzione statunitense per quanto concerne i dossier dell’area Mena. Un interessamento che conferma svariate indiscrezioni arrivate alla stampa da almeno tre anni e che ultimamente fanno segnare un picco. Ci sarebbero almeno mille contractor della Wagner, società di mercenari con molti prolungamenti nel governo, che stanno fiancheggiando i miliziani del signore della guerra dell’Est, Khalifa Haftar, nel suo tentativo di rovesciare il governo onusiano di Tripoli.
Il megafono del Cremlino ha continuato dicendo che “molte nazioni non hanno il diritto morale di rilasciare dichiarazioni del genere, dopo aver effettivamente distrutto il Paese attraverso i loro passi violando il diritto internazionale”. Un attacco di tipo classico per Mosca, che contesta da sempre l’azione per detronizzare il rais Gheddafi. Lo fa sia perché fu una missione Nato, e dunque per spingere una propria narrativa ideologica anti-occidentale, sia per ragioni più contingenti. La Russia aveva contrattualizzato petrolio e armi con la Libia gheddafiana, ma la caduta della Jamāhīriyya li ha dematerializzati. Il sostegno ad Haftar segue qualcosa di molto simile: da un lato schierarsi su una posizione che complica le dinamiche di Usa e Ue (e Onu), dall’altro il tentativo di trovare una sponda con cui riattivare quei vecchi contratti.
Peskov ha polemizzato direttamente con le parole usate da David Schenker, assistente del segretario di Stato per gli affari del Medio Oriente, il quale ha detto che la Russia ha schierato in Libia al fianco di Haftar quelli che sono ormai suoi soldati “regolari”. L’americano ha descritto la loro presenza come “incredibilmente destabilizzante”, questione che “solleva lo spettro di vittime su larga scala tra la popolazione civile”. Contractor della Wagner sono stati schierati nel Donbas e in Siria, oltre che in svariate altre aree del mondo come proxy clandestini della politica estera aggressiva russa.
Tre giorni fa una delegazione statunitense di alto livello è volata a Bengasi per pressare Haftar a fermare i combattimenti e a sganciarsi dai russi. Posizione recentemente presa anche dal Congresso, che non accetta la penetrazione russa seguendo con Mosca un approccio di confronto molto classico. Diverso per Donald Trump, a cui sta in mano il pallino: il presidente vede un avvicinamento a Mosca come un elemento strategico, ma ha già dimostrato che in certe situazioni (come sulle sanzioni per l’Ucraina) non intende cedere il passo alla Russia. Un suo tweet sarebbe l’arma più forte per fermare Haftar e portare in stallo il supporto russo.