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Perché la demografia è il vero incubo della Cina di Xi

Montagne russe, anzi cinesi. Gli ultimi sondaggi demografici rivelano una grande verità sullo stato di salute della Cina: l’aumento della popolazione sta per finire lasciando spazio a una rovinosa picchiata. Tanto è stata repentina e veloce la salita dell’economia cinese, tanto sarà ripida la discesa. Per dirla con George Will, premio Pulitzer e firma di punta del Washington Post che ha appena dedicato al tema un editoriale, “se la demografia della Cina deciderà il suo futuro non abbiamo nulla di cui preoccuparci”.

Numeri alla mano, il mito di una crescita economica e demografica inesorabile del Dragone deve essere ridimensionato. Uno sguardo alla fascia di popolazione che più di tutte incide sull’andamento del Pil, quella “in età di lavoro” compresa fra i 15 e i 64 anni, aiuta a capire. In Cina, dal 1975 al 2010, è raddoppiata. In questi trentacinque anni però la fertitilità è rimasta ben al di sotto del cosiddetto “livello di sostituzione”. In un recente articolo per Foreign Affairs Nicholas Eberstadt, economista in forze all’American Enterprise Institute (Aei), ha parlato a proposito di “collasso della fertilità”.

Il risultato, prevede il professore di Harvard, è un drastico calo della popolazione cinese a partire dal 2027. Solo la popolazione in età di lavoro, spiega Eberstadt, entro il 2040 avrà “almeno 100 milioni di persone in meno” mentre la popolazione adulta “avrà un livello medio di istruzione inferiore alla Bolivia o allo Zimbabwe”.

Un ingrediente fondamentale del cosiddetto “dividendo demografico” alla base della crescita cinese rischia dunque di venire meno. La ricetta del successo cinese, come ha spiegato Alessia Amighini sull’Ispi, constava della combinazione di pochi, decisivi fattori: “La crescita della popolazione in età lavorativa ha garantito al contempo un’adeguata offerta di lavoro, un declino nel rapporto di dipendenza (il rapporto del popolazione inattiva rispetto a quella in età lavorativa), che è la condizione per la accumulazione del capitale, e una riserva di lavoro illimitata, necessaria per evitare il calo del rendimento del capitale, il che a sua volta ha permesso che gli investimenti fossero la principale fonte di crescita del Pil”. Con l’inversione di marcia della fascia in età di lavoro l’intera architettura può crollare.

I guai per Pechino non finiscono qui. Non solo la popolazione è destinata a crescere sempre meno, ma è anche condannata a un inesorabile invecchiamento. Nel 2040, rivelano gli studi citati dal professore, gli anziani (65+) saranno più del doppio dei bambini di età inferiore ai 15 anni, e l’età media passerà dai 28 ai 46 anni. Il conto lasciato in eredità dalla globalizzazione, insomma, potrebbe rivelarsi salatissimo. Anche perché per quell’epoca si avrà una reale misura dell’impatto che le politiche di contenimento della natalità imposte per decenni dal governo comunista hanno avuto sulla popolazione cinese. È il caso della famosa politica “un solo figlio” rimasta in vigore per legge dal 1979 al 2010. Di fronte alla possibilità di avere un solo erede, molte famiglie cinesi hanno optato per l’aborto del primogenito di sesso femminile. Così di qui a vent’anni la Cina dovrà fare i conti, dice Eberstadt, con “decine di milioni di uomini in surplus”.

Cifre da capogiro che certo non sfuggono agli occhi dello stesso governo. L’impennata dell’aspettativa di vita e la brusca frenata del tasso di fertilità sono due facce di una medaglia ben nota a schiere di economisti e studiosi vicini al partito comunista. Fece scalpore per la sua sconcertante franchezza l’affermazione di uno studioso dell’Accademia cinese per le scienze sociali, Cai Fang, in una conferenza sull’economia dell’ex Celeste impero nel 2012: “non c’è dubbio che la Cina diventerà vecchia prima di diventare ricca”.

Sette anni dopo quella battuta viene presa molto sul serio fra accademici e policymakers cinesi. Tant’è che negli ultimi anni il governo ha cercato di correre ai ripari, allentando la politica del figlio unico. Gli effetti sperati però non si sono visti. La progressiva apertura del mercato del lavoro alle donne e l’alto costo necessario a crescere e istruire un figlio maschio nella società cinese non hanno facilitato le cose.

La crescita demografica, che da anni vede l’Europa e anche gli Stati Uniti in grave affanno, resta oggi il più grande ostacolo anche per le ambizioni geopolitiche della Città Proibita. Le statistiche smontano la narrazione di un Paese lanciato verso un destino inevitabile di prosperità economica e dominio geopolitico. Se davvero, come sostiene Parag Khanna, il ventunesimo secolo sarà “il secolo asiatico”, si vedrà anche da altri Paesi asiatici che invece sono alle prese con una straordinaria (e non priva di problemi) crescita della popolazione in età di lavoro. L’India è in cima alla lista, seguita da Indonesia e Filippine.

La Cina, a dispetto di un certo luogo comune, rischia di perdere posizioni. Un suggerimento utile per chi, nel mondo del business e della politica, dà per scontata “l’ascesa cinese” e prende le misure di conseguenza. È il caso, chiude con una nota amara Will sul Washington Post, di un gigante del mondo dello sport come l’Nba, tutt’ora affannata a recuperare le grazie del governo cinese che l’ha censurata dopo che gli Houston Rockets hanno preso le difese sul loro account twitter dei manifestanti a Hong Kong. “L’atteggiamento strisciante di certe multinazionali potrebbe venir meno se i loro ad non sopravvalutassero il presente della Cina e il suo futuro precario”.

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