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Nel 1989 ha vinto l’Europa, che poi ha perso sé stessa

Non si capisce fino in fondo il processo politico e sociale che porta il 9 novembre di trent’anni fa al crollo del muro a Berlino senza un’altra data, di quasi due anni e mezzo successiva, cioè quel 7 febbraio 1992 in cui viene firmato il poderoso Trattato di Maastricht, che con i suoi 252 articoli pone la basi della seconda e decisiva fase della storia dell’Unione europea, quella dell’allargamento.
È infatti assai fuorviante sostenere che ad abbattere l’Impero Comunista possa essere stato (da solo) lo “Scudo Stellare” di Reagan, strumento più di propaganda che d’ingegneria militare.

La verità è che l’Unione Sovietica e il Patto di Varsavia si sgretolano innanzitutto per l’ormai manifesta incapacità di reggere il confronto con i vicini paesi dell’Europa Occidentale, confronto ormai insostenibile in termini di diffusione del benessere, qualità della vita e rispetto dei diritti dell’uomo (libertà politiche comprese).

Poi certo l’ombrello militare americano (di cui alla voce Nato) gioca un ruolo importante (bastano le parole di Enrico Berlinguer a chiarirlo), ma non possiamo per questo eludere il punto decisivo di quella pagina di storia, cioè la poderosa vittoria politica dell’Europa che si afferma davanti al mondo intero come modello di società in grado di interpretare al meglio le più diverse sollecitazioni di carattere economico, sociale e politico.

Il fenomeno è infatti ben evidente ascoltando (o rileggendo) a trent’anni di distanza le parole dei cittadini di Berlino Est o di Varsavia, di Budapest o Praga, parole tutte volte a ricordare la loro micidiale frustrazione nell’essere europei di serie C rispetto ai parigini, londinesi o tedeschi dell’Ovest. Ebbene questo confronto ormai insostenibile (si pensi solo al divieto assoluto di espatrio senza autorizzazione nell’epoca dello sviluppo esponenziale a livello planetario dell’aviazione civile) rende mese dopo mese le classi dirigenti dell’Est sempre più invise alla popolazione, mentre quest’ultima sogna di vestirsi all’occidentale, viaggiare all’occidentale, votare all’occidentale.

Possiamo insomma dire che a trionfare in quel fondamentale 1989 è innanzitutto l’Europa, guidata da giganti del ‘900 come Kohl e Mitterrand, un’Europa che è in primo luogo un robusto e condiviso progetto politico, capace in quanto tale di guadagnarsi un posto al tavolo dei grandi con Stati Uniti, Cina, Russia e India. Diciamo tutto questo però anche per evidenziare come parte non di poco conto di quel progetto europeo è andata perduta, tradendo in misura non irrilevante lo spirito di Maastricht.

Se infatti è vero che due pilastri di quel progetto sono giunti a compimento (moneta unica e allargamento a Est), altrettanto non si può dire di altri elementi essenziali, come una politica della difesa comune ed una ben coordinata politica estera. Sul piano economico poi molto è stato fatto ma moltissimo resta da fare, al punto che è in atto da anni una “guerra fredda” tra paesi Ue in materia fiscale e di attrattività degli investimenti (per non parlare della sciagura rappresentata dall’uscita di Uk dall’Unione). Insomma l’Europa ha vinto la sfida con il Pcus e le va riconosciuto.
Ora però non perda quella del XXIesimo secolo, strada sulla quale invece si è infilata da sola.

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