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Gli investitori scappano ma si può rimediare. Polillo spiega come

Come rispondere al monito del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella? Al suo grido accorato sulla possibile esplosione di una “bomba sociale”. Non solo l’Ilva, sempre più sinonimo del grande disastro produttivo. Ma anche punta affiorante di un iceberg, la cui base è rappresentata dalle centinaia di vertenze aziendali, aperte e dimenticate. Ma tutte con un comune denominatore: l’abbandono da parte degli investitori, alla ricerca di un luogo sicuro, lontano dai confini nazionali, dove continuare a produrre ed investire. Dopo gli anni dell’inedia, sul fronte di una politica per lo sviluppo, i nodi stanno venendo al pettine. Tutti insieme: come spesso capita in un corpo malandato, segnato dalla trascuratezza e da una vita poco responsabile. Preannuncio di un imminente disastro. Si comprende allora lo sconcerto del movimento sindacale, ma anche la sua impotenza.

Spettava soprattutto alle forze politiche, sia di governo che d’opposizione, evitare il progressivo sfaldamento della situazione economica. Agendo non solo in Italia, ma nei confronti dell’Europa. Rispetto alla quale mettere al bando i contrapposti, ma altrettanto inutili, atteggiamenti: della sudditanza o della iattanza. Altro che mini-bot o la retorica dei “compiti a casa”. Ma un confronto serrato, che partisse dai dati concreti della situazione italiana. Utilizzando, per evitare ulteriori polemiche, proprio gli elementi forniti dalla stessa Commissione europea, ma già sufficienti per delineare un percorso diverso da quello finora seguito. Almeno a partire dal 2012.

Il dramma di una stagnazione decennale, in Italia, è fin troppo evidente. Dal 1988 – epoca in cui la crescita del Pil fu pari al 3 per cento – il Paese si è sempre collocato all’ultimo posto delle classifiche internazionali. Le ultime elaborazioni della Commissione europea forniscono, purtroppo, elementi prospettici ancora più preoccupanti. Le sue più recenti tabelle sullo sviluppo potenziale del sistema economico (la speranza di futuro) mostrano una crescita cumulata, al 2021, pari ad appena lo 0,6 per cento. Contro una media dell’Eurozona, nello stesso periodo, dell’8,7 per cento. L’output gap – vale a dire la differenza tra quanto si poteva fare e quanto si è fatto- è pari a circa 9 punti, contro i 3,3 degli altri. Segno di una deflazione ben più crudele.

In queste condizioni non ha senso alcuno insistere sulle vecchie politiche di contenimento del deficit, che comportano rincorse affannose nella ricerca di poche risorse da esibire come dimostrazione della propria esistenza a Palazzo Chigi. L’unica regola che l’Italia deve rispettare è quella del debito. Evitare cioè che questo aumenti in misura ulteriore con politiche dissennate. Ma questi obiettivi possono essere perseguiti con politiche diverse. Puntando, in prima battuta, su una crescita del Pil per poi parametrarvi le ricadute in termini di pubbliche finanze.

Si può, ad esempio, indicare come prioritario un target di crescita del 4 per cento all’anno: metà sviluppo reale e metà inflazione. E quindi cercare le combinazioni ottimali per evitare che il debito cresca ulteriormente. Basterebbe, in questo caso una crescita ex post del 4 per cento per avere un rapporto debito – Pil esattamente pari alle proiezioni della Nota di aggiornamento al Def. Che indica un valore del 135,2 per cento. Ma con un deficit di bilancio ben più alto (quasi due volte e mezzo la striminzita manovra di fine anno): risorse da utilizzare in quella grande riforma fiscale che è la palla al piede dell’economia nazionale. Ed, al tempo stesso, programmare quel po’ di investimenti che, realisticamente, e non sulla carta si riesce a fare.

L’uovo di Colombo? Mica tanto. Ad un deficit, decisamente superiore ai vincoli di Maastricht, si sarebbe dovuta accompagnare una politica di rigore. Non “à la Monti”. Ma con garanzie solide: nessuna spesa corrente improduttiva. Nessun tentativo maldestro di pensare di risolvere il problema della povertà o del disagio sociale con un piatto di lenticchie. Ma chiamare l’intero Paese ad uno sforzo collettivo per invertire quella rotta che porta, quasi inevitabilmente, alla perdizione. Ai mercati una garanzia di serietà con una tempistica precisa e verificabile. Anche a costo di chiedere il patronage delle grandi Istituzioni internazionali: una volta tanto chiamate ad aiutare e non a deprimere, salvo tardive lacrime da coccodrillo, il corso degli eventi.

Non è stato possibile impostare un simile discorso. Ma solo per una ragione tutta politica. Lo sviluppo di questa linea richiede una maggioranza solida. Con una visione unitaria e priorità condivise. Non il litigio quotidiano, per marcare le rispettive posizioni, al quale, purtroppo è dato da vedere. Meglio ancora se confortata da elezioni politiche, nel corso delle quali preparare il Paese. E far scegliere i cittadini. Che non cercano la luna nel pozzo. Ma solo una certezza di futuro. Purtroppo così non è stato. È prevalsa la paura del salto nel buio, perdendo tempo prezioso. Ma si può rimediare. La Spagna in quattro anni è stata coinvolta in altrettante tornate elettorali. Che non hanno certo risolto i suoi problemi politici. Ma intanto, nel 2019, crescerà dell’1,9 per cento, contro lo 0,1 dell’Italia. Gli spread sui bonos sono di quasi 100 punti base inferiori a quelli italiani. Ed il tasso di disoccupazione, in questi convulsi quattro anni, è diminuito di 5,6 punti contro gli 1,3 dell’Italia. A dimostrazione che non bisogna avere paura del popolo.

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