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Così Hong Kong toglie il sonno a Xi Jinping. Parla Pelanda

Le rivolte di Hong Kong sono la spia di segni di cedimento nel sistema cinese, che spingerà Xi Jinping a “intervenire con forza quando avrà il sentore che l’effetto contagio potrebbe essere vicino”.
A crederlo è Carlo Pelanda, professore di Geopolitica economica all’Università degli Studi Guglielmo Marconi, che in una conversazione con Formiche.net analizza l’escalation di violenza sull’isola, le ragioni delle proteste, il ruolo americano e il bisogno di una strategia occidentale per ridurre l’influenza di Pechino. E sui silenzi dell’Italia su ciò che accade dice che…

Professore, che cosa succede a Hong Kong?

Succede che il sistema cinese, che fino a una decina di anni fa era abbastanza stabile, inizia a mostrare segni di cedimento. Se prima nel Paese era una speranza diffusa di un miglioramento delle proprie condizioni di vita, da un paio d’anni anche l’economia della Repubblica Popolare è minore di quanto atteso. Nel frattempo, l’ascesa di Xi Jinping ha portato a una centralizzazione del potere che ha assunto connotati dittatoriali formali, difesa prima da un rafforzamento della sicurezza interna tradizionale e, in seguito, dalla sorveglianza digitale. Se a questo si aggiungono le peculiari caratteristiche di Hong Kong, si capisce bene quale bomba sia scoppiata.

Pechino farà intervenire l’esercito?

Partiamo col dire che la Cina ha tutto l’interesse a evitare l’uso della forza. Sta cercando dei modi per sedare la rivolta senza intervenire direttamente. Ragionando per logica, Xi potrebbe avere al momento un piano A e un piano B. Il primo punterebbe sul fatto che i manifestanti potrebbero presto essere fermati dalla stessa gente che vive sull’isola e si trova impossibilitata a fare business. Il secondo, il meno desiderato e desiderabile, potrebbe essere quello di infiltrare i manifestanti con agenti provocatori che commettano qualcosa che giustifichi poi la repressione.

Xi teme un effetto contagio?

Senza dubbio è una delle preoccupazioni maggiori. Nei miei colloqui con esperti di Cina e con la stessa gente del posto ho notato un’ossessione continua riguardo al controllo del territorio e della popolazione. Penso che Xi ordinerà di intervenire con forza sull’isola proprio quando avrà il sentore che l’effetto contagio potrebbe essere vicino.
Ad ogni modo resta l’affetto e il sostegno per i ragazzi di Hong Kong; il mio appello da professore a studenti è di non farsi strumentalizzare e provocare, ma di difendere i loro diritti con la giusta cautela.

Nel frattempo Washington guarda con preoccupazione a quanto accade. Il segretario di Stato Mike Pompeo ha condannato sia la Cina sia i manifestanti, aggiungendo che se la situazione dovesse ulteriormente precipitare gli Usa potrebbero agire. Che cosa significano queste parole? E in che modo gli Stati Uniti potrebbero farlo?

Le parole di Pompeo vanno lette in primo luogo come l’aver tenuto conto di una posizione espressa in modo bipartisan alla Camera dei Rappresentanti, dove i legislatori hanno condannato le violenze della polizia di Hong Kong. In seconda battuta non penso che Washington reagirà, almeno non nell’immediato, ma intende sfruttare questa crepa. Ci sono oggi due principali strategie da adottare per ridurre il potere cinese.

Quali?

La prima è formare un’alleanza tra democrazie che abbia una massa maggiore della Cina, in modo da condizionare Pechino per rinegoziare gli accessi al mercato. La seconda è quella di puntare sulla crescita di movimenti pro democrazia all’interno del Paese, facendo leva sui milioni di fedeli cristiani in Cina. Naturalmente questo secondo approccio ha dei rischi notevoli, perché destabilizzare oggi la Repubblica Popolare al suo interno creerebbe le condizioni per una crisi economica globale difficilmente controllabile. Credo, per questo, che – al di là della giusta sottolineatura dei valori occidentali di libertà di espressione e democrazia – gli Usa non forzeranno su Hong Kong, anche per evitare una reazione cinese su Taiwan che li costringerebbe ad avere un profilo di guerra, che la Casa Bianca vuole evitare tanto più a un anno dalle elezioni.

A proposito di valori occidentali, recentemente hanno fatto molto discutere i silenzi del ministro degli Esteri Luigi Di Maio, che in Cina ha preferito non commentare i fatti di Hong Kong. Che cosa ne pensa?

Credo che di fronte a un tema come la libertà non ci debbano essere cedimenti. Non funziona questa idea di tenere un piede in due scarpe. La Cina è senza dubbio un regime repressivo e autoritario. Questo va detto con forza a mio parere. Dopodiché credo che il modo migliore per averci a che fare commercialmente sia quello di creare i presupposti per una grande alleanza occidentale che parli con Pechino in modo paritario e che la porti, nel tempo, ad abbandonare per forza di cose i suoi tratti dittatoriali. Capisco che la realpolitik possa imporre, talvolta, di non fare troppo casino. Ma i nostri valori vanno difesi, tanto più in un momento in cui è chiaro che l’Italia è un campo di battaglia tra Cina e Usa. E tra i due non ci dovrebbero essere dubbi su chi sostenere: Washington è a noi affine da molti punti di vista, è un alleato tradizionale e, cosa altrettanto importante, è una potenza molto più stabile della Repubblica Popolare, che ha un regime fragile e che in futuro potrà implodere.


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