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Per Pechino scoppia la grana fintech. A Hong Kong

Costa cara alle banche cinesi la protesta anti-Pechino a Hong Kong. Gli effetti collaterali della rivolta che ha gettato nel caos una delle principali piazze finanziarie mondiali, cominciano a farsi sentire sul sistema economico locale ma anche e soprattutto bancario dell’ex Celeste Impero. Che cosa succede? Molte banche virtuali cinesi, le cosiddette Fintech che un po’ alla volta stanno rivoluzionando il tradizionale modello bancario globale, mandando in pensione anticipata il front office, non riescono ad attivare i propri servizi sulla piazza finanziaria di Hong Kong, sulla quale transita una buona fetta di Pil globale. Il destino vuole, racconta il Financial Times, che gli istituti online in questione si siano già aggiudicati i numerosi permessi e licenze per operare, messi in palio dall’autorità monetaria di Hong Kong. Ma si sono fermati lì.

Il fatto è che il montante sentimento anti-cinese alla base di una protesta che dura ormai da mesi, ha paralizzato i piani in loco delle banche cinesi, che temono una scarsa domanda ai servizi offerti, in segno di rappresaglia contro la finanza cinese. Pechino oggi è presente a Hong Kong attraverso alcuni istituti tra i più grandi al mondo. Oltre alla britannica Hsbc, nell’ex colonia inglese operano, Hang Seng Bank (affiliata cinese della banca Uk), nonché la Bank of China Hong Kong e Standard Chartered. Questi quattro istituti rappresentano circa i due terzi di tutti i prestiti bancari al dettaglio concessi a Hong Kong, secondo le stime di Goldman Sachs.

Ora il discorso non vale per le nuove banche virtuali, che nonostante non abbiano la necessità di una presenza fisica sul territorio tramite filiali, si ritrovano ad avere la licenza di operare, ma senza poterlo fare davvero e con il rischio pressoché totale di vedere il proprio business mancare il bersaglio. Nessun risparmiatore di Hong Kong, è il timore, accetterà di usufruire di servizi fintech emessi da una banca cinese. Di qui lo stop. E questo è un gran bel problema per le sei banche online cinesi destinatarie di sei licenze su sette messe in palio dalle autorità (la settima è andata a un istituto locale). E in definitiva lo è anche per Pechino.

Tanto per cominciare, nei piani delle banche online della Grande Muraglia c’era l’obiettivo di usare proprio Hong Kong come trampolino di lancio per poi espandere i propri servizi ai mercati occidentali. Niente Hong Kong, niente Occidente. Secondo, le stesse banche potrebbero aumentare il pressing su Pechino affinché allenti la presa sull’ex colonia britannica, disinnescando la protesta e favorendo un ingresso delle fintech cinesi. Senza considerare l’aspetto fiscale, visto che il governo cinese tassa seppur in misura ridotta, i servizi bancari.

Naturalmente l’aspetto bancario è solo una parte del problema Hong Kong. Dopo cinque mesi di proteste anti-governative, e due trimestri consecutivi di calo del Pil, l’isola è entrata in recessione per la prima volta negli ultimi dieci anni. Al punto che lo scorso agosto, il governo della Regione amministrativa speciale cinese aveva rivisto al ribasso le previsioni di crescita per il 2019 portandole a una stima annua compresa tra lo 0 e l’1% rispetto a quella precedente tra il 2 e il 3%.

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