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Hong Kong, perché l’escalation di violenza fa il gioco di Pechino

La polizia (cinese) di Hong Kong dice che lo stato di diritto “è vicino al collasso”. È un monito molto duro, accompagnato da una dichiarazione in cui l’Ufficio di collegamento ha denunciato come l’ex colonia stia “scivolando verso l’abisso del terrorismo”. La richiesta che arriva dal mainland alla detestata Chief Executive, Carrie Lam, è ancora più da brividi: “Adottare ogni misura necessaria”.

Questi appena trascorsi sono stati giorni di estrema violenza nell’ex colonia britannica. Le proteste iniziate a giugno procedono ininterrottamente. Sono diventate una spassionata quanto disarticolata richiesta di democrazia, libertà e futuro. Sono spinte da giovani hongkonghesi che si sentono senza speranze. Ieri la polizia ha circondato alcuni campus universitari: ha sparato proiettili di gomma e lacrimogeni (nei video si sentiva un agente dire a un altro “mira alla testa”). Gli studenti hanno risposto con molotov, mattoni e frecce infuocate (iconografia postmoderna: armi medioevali, archi, frecce e fionde, nel cuore di uno dei poli finanziari globali).

Le immagini sotto non sono riprese da un campo di battaglia, ma dal compound dell’Università cinese di Hong Kong.

Nelle ultime settantadue ore si sono consumate alcune delle scene più crude dall’inizio delle dimostrazioni. Tre giorni fa un cittadino è stato cosparso di benzina e poi incendiato dai manifestanti: lui li accusava di essere “britannici”, ossia pro-colonialismo, difendeva l’appartenenza cinese, ne è nata una rissa, è degenerata in un modo atroce (ma ci sono già quelli che dicono che era una messa in scena). Nello stesso giorno un agente ha sparato a bruciapelo a un ragazzo in strada: era spaventato e impreparato, in tenuta leggera (non antisommossa), s’è visto arrivare contro due manifestanti, era in confusione, ha estratto l’arma e fatto fuoco. Ieri un poliziotto, durante una situazione di tensione in una fermata della metropolitana, mentre discuteva con una donna incinta l’ha schizzata al volto (da distanza ravvicinata) con spray urticante: poi i suoi colleghi l’hanno braccata, gettata a terra, tenuta con un manganello a strozzo e ammanettata; lei era disarmata. Venerdì scorso è morto un ragazzo caduto da un’altezza di oltre dieci metri nel tentativo di sfuggire a una salva di lacrimogeni.

Questa fase violenta delle proteste fa il gioco di Pechino. I manifestanti sono caduti in un sorta di tranello, il tentativo cinese di massimizzare le violenze in modo da poter descrivere tutti coloro che scendono in piazza come un gruppo di “rivoltosi”. Da sempre la Cina comunista ha adottato una semantica secca: li chiama “rioters“, rivoltosi appunto, e non differenzia chi prende parte ai disordini da guerriglia dalle famiglie che manifestavano pacificamente preoccupate per la cinesizzazione. Il processo che sta togliendo in modo nemmeno troppo graduale lo status di unicità e semi-autonomia al Porto Profumato. È questa la narrazione.

Metodo tipico dei regimi autoritari, spinto dalla propaganda. I giornali del Partito mostrano le loro immagini. Joshua Wong, volto dei manifestanti che a fine mese doveva essere in Italia, viene indicato come un “separatist“, per esempio. È accusato di essere un eversivo indipendentista a cui Roma e Milano non avrebbero mai dovuto dare sponda, e per questo il governo italiano è stato richiamato. (nota: l’Italia non ha reagito, nessuna risposta ufficiale, ma a risolvere la questione ci ha pensato il ministero degli Esteri da Pechino, che ha respinto la richiesta di espatrio per Wong). Il termine separatist è usato contro i nemici del Partito comunista come il Dalai Lama.

L’ufficio di collegamento parla di terrorismo, e non è la prima volta che viene evocato, lo fa anche per giustificare le azioni di repressioni, il pugno duro delle autorità. Si temono momenti peggiori. Allo stesso tempo, le violenze dei manifestanti stanno giustificando un’eventuale azione di contenimento più forte, con il risultato che parte della base che ha condotto le proteste non si riconosce in quello che sta accadendo, anche perché attualmente tutto ha preso una direzione irrazionale (direzione a beneficio di Pechino). Tra i tanti video che circolano dalle strade hongkonghesi, molto emblematico è quello di due ragazze che discutono a un incrocio. Una col volto coperto da una maschera (simbolo, proibito, dei manifestanti più tosti) dice: “Vieni e supportaci!”. L’altra risponde: “No, non più, perché voi siete andati fuori controllo”.

(Foto: Twitter, @HongKongFP)

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