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Che succede ora all’Ilva? I nodi da sciogliere secondo il prof. Pirro

La decisione di Arcelor Italia di recedere dal contratto di locazione finalizzato all’acquisto dell’intero compendio del Gruppo Ilva con i suoi siti di Taranto, Genova Cornigliano e Novi Ligure ha avuto un impatto sull’opinione pubblica nazionale sicuramente molto forte, ma non era imprevedibile e per molti aspetti è anche inevitabile.

Il venire meno, infatti, a livello parlamentare delle tutele legali per il periodo di attuazione del piano ambientale, e i provvedimenti della magistratura ionica che impongono ai commissari interventi di messa a norma sull’altoforno n.2 entro il prossimo 13 dicembre – scadenza ritenuta tecnicamente impraticabile, con il rischio che in tal modo venga meno la capacità produttiva del Siderurgico – sono alla base di una decisione che ha creato scompiglio nel governo, in Parlamento, fra i sindacati, le Associazioni di categoria, prime fra tutte Federacciai e Federmeccanica, ed anche a livello di Autorità ecclesiastiche, come evidenziato dalle parole accorate dell’Arcivescovo di Taranto monsignor Santoro.

Ora l’azienda ha dichiarato che, entro un arco di tempo predeterminato a partire dalla ricezione da parte dei commissari della sua comunicazione, avverrà un ordinato passaggio delle consegne gestionali dei siti alla amministrazione straordinaria cui verrà retrocesso anche il personale che era stato assunto con contratto a tempo determinato che si sarebbe trasformato a tempo indeterminato solo all’atto dell’acquisto previsto contrattualmente dal 1° maggio 2021.

E ora che succede? Il governo vuole correre ai ripari convocando l’azienda e puntando (pare) ad un provvedimento di urgenza che ristabilisca le tutele legali venute meno con l’ultimo provvedimento del Parlamento. Ma vi sono altri nodi da sciogliere come le prescrizioni prima ricordate della magistratura per il pieno adeguamento alle normative di sicurezza dell’altofono n.2, la restituzione (almeno della facoltà d’uso) dell’area posta sotto sequestro nel porto dopo il tragico incidente del luglio scorso in cui perse la vita un gruista – restituzione che consentirebbe di sbarcare le materie prime nello scalo ionico senza disperderne l’arrivo in altri porti da dove trasportarli al siderurgico con costi gestionali aggiuntivi molto elevati – e la sospensione del provvedimento del ministro dell’ambiente Costa – contro il quale pende un ricorso al TAR di Lecce della società – che vorrebbe introdurre norme ancor più stringenti nella valutazione di impatto ambientale: tutti elementi, è bene ricordarlo, che non erano previsti o prevedibili all’atto della partecipazione alla gara da parte di Arcelor e della successiva aggiudicazione della stessa.

Tutte questioni, quelle appena ricordate, certo molto complesse e politicamente e giuridicamente delicatissime, da risolversi a questo punto con l’impegno dell’intero governo, dei partiti che lo sostengono e di tutto il Parlamento, perché – lo ripetiamo per l’ennesima volta – lo stabilimento siderurgico di Taranto è la più grande fabbrica manifatturiera del Paese per numero di addetti diretti, cui bisogna aggiungere i lavoratori dell’indotto, e una sua dismissione sarebbe una vera catastrofe per Taranto, la Puglia e l’Italia.

È appena il caso di ricordare inoltre che con un provvedimento del governo Monti del dicembre 2012 lo stabilimento ionico venne classificato come impianto di “interesse strategico nazionale”, e pertanto come tale da tutelarsi nella sua capacità produttiva (da rendersi sempre più ecosostenibile) a vantaggio dell’intera collettività nazionale.

È opportuno ribadire inoltre che la grande fabbrica tarantina – cui sono connessi “a valle” gli stabilimenti di Genova e Novi Ligure – dovrà conservare intatta la sua capacità di produzione partendo dall’area a caldo da rendere pienamente ecosostenibile con gli investimenti programmati da Arcelor o attuabili, in caso di suo recesso, da chiunque altro. Senza l’area a caldo – oltre alla perdita secca di circa 4.000 occupati – il siderurgico non reggerebbe sotto il profilo economico, è bene ripeterlo a chi si improvvisasse esperto di gestione di acciaierie.

Allora se questo è vero, ci si adoperi (ad horas) a livello di governo con fermezza contro ogni esercizio di demagogia, con lucidità operativa, con piena intelligenza della partita che si sta giocando, e si riapra un confronto serrato ma costruttivo con Arcelor Italia considerando anche che un suo ritiro dall’Italia sarebbe una vera mazzata strutturale per l’immagine di un Paese che vorrebbe attrarre altri investimenti esteri. Ma chi li farebbe, in presenza di uno Stato che non mantenesse impegni sottoscritti da un precedente governo e rimessi poi in discussione per un pervicace esercizio di demagogia che rischia soltanto di portare alla catastrofe l’economia meridionale, con danni devastanti anche per l’industria meccanica del Nord?

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