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Cdp e Ilva, quale partnership industriale per una newco? La ricetta di Pirro

Concordo con quanto ha detto a questa testata l’autorevole professore ed amico Giulio Sapelli circa la necessità che il grande stabilimento siderurgico di Taranto venga conservato integro nella sua capacità produttiva – contro ogni tentativo da chiunque perseguito di ridurla, anche con la dismissione dell’area a caldo – perché resta il pilastro di buona parte dell’industria meccanica italiana.

L’impianto del capoluogo ionico venne insediato a partire dalla posa della prima pietra il 9 luglio 1960, e ne entrarono in esercizio dapprima i tubifici – per commesse provenienti (molti lo ignorano o lo hanno dimenticato) dall’Unione Sovietica – e poi gli altiforni n.1 e n.2. Poi fra il 1968 e il 1971 il sito venne ampliato con l’altoforno n.3 e successivamente “raddoppiato” nella sua capacità fra il 1971 e il 1975 con l’ altoforno n. 4 e il gigantesco n.5 – che da solo fornisce il 40% della ghisa della fabbrica – oggi fermo da alcuni anni.

Sin dal suo insediamento dunque – accompagnato dalla costruzione di un grande porto industriale con sporgenti asserviti esclusivamente alle sue movimentazioni di materie prime e di prodotti fini – il IV Centro Siderurgico, dopo quelli di Cornigliano, Piombino e Bagnoli, proseguiva in Italia il rafforzamento  della siderurgia a ciclo integrale sul mare (che era stato il grande disegno di Oscar Sinigaglia che però, scomparendo nel 1953, non vide Taranto di cui si iniziò a parlare nel 1957) e guardava ai mercati dell’Oriente.

Ha ragione allora il professor Sapelli quando dice che oggi e nei prossimi anni – con la ricostruzione che prima o poi dovrà partire in Siria, Iraq e Libia e con lo sviluppo che dovrà rafforzarsi in altri Paesi petroliferi mediorientali, impegnati a diversificare le proprie economie – l’acciaieria di Taranto potrà fornire grandi quantità di materiali utili ai quei processi. Pertanto battersi oggi con gli operai, i tecnici, i quadri e i dirigenti – e naturalmente con il governo e il Parlamento – per conservarne integre in logiche di ecosostenibilità le capacita produttive significa difendere una delle leve forti della nostra industria nazionale.

Per tale obiettivo bisogna (subito) porre in condizione l’amministrazione straordinaria, o un super Commissario, di riportare a galla lo stabilimento con una produzione di almeno 6 milioni di tonnellate consentite dall’AIA, e contemporaneamente lavorare alla costituzione di una cordata in cui – attraverso una newco senza debiti pregressi – la Cassa Depositi e Prestiti, anche tramite il Fondo di investimento italiano da essa controllato al 68% – svolga un ruolo di partner finanziario, e non certo di gestore industriale. Questo è un punto su cui invece dissento dall’amico Sapelli – perché la Cdp oggi è già azionista da tempo di grandi gruppi pubblici nazionali strategici e partecipa ai loro dividendi. Pertanto, essendo considerato nel Paese l’acciaio un settore strategico per l’economia nazionale sarebbe bene, a mio avviso, che partecipasse come conferente di capitale. E del resto lo era nella cordata Acciaitalia che perse la gara con Arcelor Mittal, dicendosi pronta peraltro, sia pure fuori tempo massimo, ad un rilancio della sua offerta uscita soccombente, mentre il suo piano industriale era stato ritenuto migliore di quello dei vincitori.

Ma quale potrebbe essere la partnership industriale della newco? Alcuni acciaieri italiani – che peraltro sono in gran parte produttori da forno elettrico – o qualcuno di loro come il gruppo Arvedi che ha innovato il suo ciclo produttivo ed aveva partecipato al raggruppamento di Acciaitalia? Certo sarebbe auspicabile, ma una attenta lettura di molti bilanci aziendali del 2018 evidenzia esposizioni debitorie in alcuni casi piuttosto elevate e probabilmente incompatibili con un conferimento di risorse cash nella nuova società. Forse potrebbero scendere in campo grandi trasformatori dei prodotti di Taranto, ma il Gruppo Marcegaglia al momento non si è detto interessato a partecipare. Sarebbe esplorabile la Fincantieri, che potrebbe conferire come quota capitale commesse per un certo numero di anni, avendo un portafoglio di acquisizioni di grandi dimensioni e dovendo costruire fra l’altro – come abbiamo letto in suoi recenti comunicati stampa – 54 navi da crociera. Potrebbe partecipare la Saipem del Gruppo Eni, ma più probabilmente bisognerebbe sondare partner esteri. Un nuovo gruppo siderurgico europeo fra Ilva e la Thyssen Krupp sarebbe proprio un’utopia ? O un intervento dei coreani della Posco fra i maggiori produttori mondiali che sono già presenti in Italia con un centro di lavorazione in provincia di Verona sarebbe impensabile?

Comunque il fattore tempo è decisivo, così come lo scudo penale per chi oggi si volesse cimentare con il governo e la bonifica del gigantesco impianto siderurgico ionico, da cui dipendono – è bene non dimenticarlo mai – gli impianti di Cornigliano e Novi Ligure. In ogni caso ha ragione il prof. Sapelli e tutti coloro che ne condividono l’opinione: bisogna difendere e conservare integra la capacità produttiva del sito ionico, impegnandosi al massimo per renderlo ecosostenibile. In proposito è bene ricordare che sta per essere ultimata la prima grande copertura del parco minerali che resterebbe un’opera inutile del costo di 300 milioni se malauguratamente il Siderurgico fosse dismesso.

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