La comunicazione quanto più è alluvionale, tanto più diventa sfuggente e incontrollabile. Soprattutto nel mondo digitale. È necessario dunque che le prove dimostrative dei guasti della comunicazione siano evidenti almeno a livello comparativo. Solo entro questa cornice, in cui il ricorso a dati di ricerca è decisivo pur sapendo che spesso riguarda terreni specifici e sezionali di un atlante ben più generale, possiamo inoltrarci verso una riflessione fondata sull’impatto delle tecnologie comunicative.
Esse si rivelano, una volta di più, tecnologie della conoscenza con un forte impatto sulla socialità e sulla partecipazione degli utenti: un processo sempre più chiaro se non ci limitiamo a registrarlo, interrogandoci sui cambiamenti profondi che esso nasconde. Per fare un solo esempio, si può dire sbrigativamente che i “vecchi” media mainstream avevano come bersaglio l’individuo con le sue relazioni sociali, secondo la celebre lezione di Katz e Lazarsfeld in un volume fondativo (1968) come L’influenza personale nelle comunicazioni di massa. Quelle nuove e moderne, invece, fronteggiano letteralmente il soggetto (senza alcun galateo per le mediazioni), con l’effetto plausibile di aumentare la quota di anonimato e di individualismo. E se dobbiamo dirla tutta, la disintermediazione su cui questa relazione ravvicinata tra soggetto e media si fonda rischia di stressare quel minimo di rapporto tra comunicazione e conoscenza che è stato ingrediente decisivo della modernizzazione culturale italiana.
Tutto ciò descrive l’autoreferenzialità dei pubblici come primo tagliando di una crescente estetizzazione del sé digitale. Parlare in rete è parlarsi. Gli altri sbiadiscono sullo sfondo, a meno che non condividano puntualmente parole e prese di posizione. L’insurrezione digitale del soggetto è dunque una rivoluzione sostanzialmente figurativa che finisce per alimentare le grammatiche dell’individualismo. Ne consegue che cambia la qualità delle interazioni, slittano radicalmente i contenuti e finisce dunque per aumentare la solitudine di fronte agli schermi. Altro che nuovo spazio pubblico! Il modo in cui si manifesta l’exploit delle interazioni è certamente indicativo dell’incerto soggetto moderno, rendendo dunque la vita pubblica un orizzonte sempre più lontano, tenendo conto per di più che le forme non virtuali di partecipazione stanno venendo meno. La stessa scomparsa del confronto e del contradditorio, con il prevalere dei soli tifosi delle singole echo chambers, rende più debole il riferimento a una democrazia rappresentativa.
Ecco allora alcuni territori in cui il colpo inferto dalla disintermediazione sembra irreparabile, se non si registra una radicale presa di coscienza della profondità di questi processi di cambiamento. Anzitutto entra in crisi il giornalismo e la sua bella storia di mediazione esperta tra pubblico e testi. Per di più la crisi dell’industria dell’informazione avviene in un contesto di exploit della disinformazione: se non ci sono più mediatori professionali e senza contromisure adeguate, le fake news sono destinate ad una lunga stagione di grazia (come dimostrano le eccellenti ricerche Agcom sulla disinformazione). Si afferma anche una crescente propensione alla polarizzazione e alla squalifica di chiunque dica, o addirittura pensi, cose diverse. È proprio il terreno di cultura delle echo chambers che inevitabilmente incrementa i linguaggi dell’odio.
Così non può che affermarsi la scomparsa dei dati e degli esperti, comportando il declino della mediazione scientifica e di un’organizzazione logica del linguaggio con la fine dichiarata del congiuntivo e, in questo contesto, la svalutazione progressiva del sapere. Un bel paradosso al tempo della società della conoscenza. È arrivato allora il momento di prendere atto che le variegate forme di attacco alla comunicazione mainstream e al giornalismo mettono in luce una sorprendente impreparazione culturale della politica e in generale delle élite, incapaci in buona sostanza di interrogarsi sulle conseguenze sociali di una vera e propria scomunicazione.