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Dall’Iraq alla Siria. Wechsler (Atlantic Council) spiega la strategia Usa in Medio Oriente

Da garanti dello status quo a incognita per un’intera regione. È una parabola da vertigine quella percorsa dagli Stati Uniti in Medio Oriente negli ultimi vent’anni. Ne è convinto William Wechsler, direttore del Rafik Hariri Center dell’Atlantic Council di Washington DC, vice sottosegretario alla Difesa con delega alle operazioni speciali e alla lotta al terrorismo con Barack Obama. L’esercito americano, confida a Formiche.net a margine di un seminario organizzato dalla Fondazione De Gasperi, non ha affatto lasciato la Siria. Ma l’annuncio del presidente Donald Trump ha cambiato la percezione dell’America, e “in politica estera le percezioni plasmano la realtà”.

Stati Uniti e Medio Oriente, una storia conflittuale…

Storicamente il pubblico americano è poco affezionato agli affari internazionali. È il privilegio di essere protetti da due oceani e avere due vicini non ostili. Durante tutta la seconda metà del Novecento la politica americana in Medio Oriente ha avuto pochi, semplici obiettivi. Garantire l’estrazione delle risorse energetiche, il libero movimento in quei mercati, la prosperità e la stabilità della regione.

In poche parole, garantire un equilibrio.

Esattamente. La priorità è sempre stata evitare che una sola potenza dominasse l’Eurasia. L’imponente impiego di esercito e mezzi militari in Medio Oriente era giustificato da questo obiettivo: preservare lo status quo.

Poi che è successo?

Tutto è cambiato con il presidente George W. Bush, che ha deciso di combattere una guerra in Medio Oriente per alterarne lo status quo, rompendo con una lunga tradizione americana. Come sappiamo, l’attuazione del piano non è andata a buon fine, ha aperto le porte all’Iran e al terrorismo, ha messo in dubbio la competenza della leadership americana.

Con Obama qualcosa è cambiato?

Obama è approdato alla Casa Bianca promettendo di voler fare meno in Medio Oriente. Ci è riuscito solo in parte. In Siria ha tracciato una linea rossa senza rispettarla, ha cambiato gli alleati tradizionali alla vigilia delle primavere arabe, ha lasciato l’Iraq salvo annunciare di tornare indietro quando Mosul è stata presa dall’Isis.

Il bilancio finale?

Tutte queste decisioni hanno alterato la percezione degli Stati Uniti nella regione. Trump ci ha messo il carico da 90. Oggi in dubbio è la stessa capacità degli Stati Uniti di prendere decisioni. Rimarranno nella regione o se ne andranno? L’impressione è che la politica interna sovrasti la politica estera.

Eppure gli Stati Uniti sono ancora lì, boots on the ground.

La nostra presenza militare e diplomatica non è calata, il commercio è rimasto inalterato. È cambiata la percezione che gli attori regionali hanno della presenza americana, e in politica estera le percezioni plasmano la realtà.

Ci spieghi meglio.

In Medio Oriente esistono due attori fondamentali: le civiltà e le Città-Stato. Le prime esistono da migliaia di anni e sono il portato di un’antica storia culturale. Le seconde sono un prodotto del ventesimo secolo e costituiscono le realtà più ricche e floride della regione.

Dunque?

Da sempre impegnate in faide settarie, tribali e personali l’una con l’altra, le Città-Stato un tempo dovevano fare i conti con l’arbitraggio esterno di potenze come Francia, Regno Unito e, per l’appunto, Stati Uniti. Oggi hanno capacità cibernetiche e di intelligence proprie e non hanno intenzione di rispondere ad attori esteri.

E agiscono in libertà, con buona pace dei loro precedenti “tutori”…

Esatto, le tensioni aumentano. Basta osservare cosa succede nel Golfo, in Yemen, nel Corno d’Africa. Le linee rosse che gli Stati Uniti hanno sempre tracciato in questa regione non vengono più rispettate. Gli attori regionali, convinti del disinteressamento americano, cercano di alzare sempre più l’asticella senza cercare lo scontro frontale.

Chi vince e chi perde?

L’Iran è il più grande beneficiario di questo nuovo spazio. Rispetto a venti anni fa ha eliminato i suoi avversari ad Est e a Ovest, ha aumentato la sua influenza in Iraq, la sua presenza in Siria, dove possiede armi e infrastrutture per minacciare Israele, è il riferimento principale per Hezbollah in Libano, fomenta le lotte locali in Yemen a danno dell’Arabia Saudita.

L’Iraq condanna l’ombra iraniana sul suo sistema politico. È davvero così?

Sì, non se ne libererò mai del tutto. Anche se domani andasse al potere Thomas Jefferson o Mahatma Gandhi, l’Iran sarebbe comunque interessato all’Iraq e vorrebbe ugualmente premurarsi che non abbia la capacità e la volontà di invadere il territorio iraniano.

Come si spiegano allora le proteste di piazza?

Gli iracheni non vogliono padroni, le proteste delle ultime settimane lo stanno dimostrando. È sorprendente notare come gli stessi sciiti iracheni stiano rigettando l’influenza iraniana, non hanno alcuna intenzione di essere subordinati a un altro Stato.

Torniamo a Trump. Come hanno reagito gli ingranaggi della macchina diplomatica a Washington DC dopo l’annuncio del ritiro dalla Siria?

Sia il Pentagono che il Dipartimento di Stato hanno fatto del loro meglio per limitare il danno e mantenere le forze americane in Siria. Per farlo hanno dovuto abbandonare i tradizionali argomenti usati per convincere i precedenti presidenti. Credibilità, deterrenza, lotta al terrorismo, geopolitica sono tutte argomentazioni vane con Trump.

Come ci sono riusciti?

Prima ancora di diventare presidente Trump ha messo in chiaro di avere una visione della guerra da XVIII secolo, riassumibile in un motto: “al vincitore le spoglie”. Per questo non comprende perché, dopo aver occupato l’Iraq, ogni goccia di petrolio estratta da un pozzo iracheno non sia finita nelle casse del Tesoro americano. Né perché l’intero territorio dell’Afghanistan non appartenga agli Stati Uniti.

Quindi?

Quindi hanno fatto leva sulla presenza in Siria di risorse energetiche strategiche per gli Stati Uniti. Ha funzionato. Le forze sono rimaste, e il Pentagono ha tirato un sospiro di sollievo. Anche se non finisce qui.

Perché?

Qual è esattamente l’autorità legale sotto il diritto internazionale per rimanere in Siria? Non è chiara la missione né quali siano le regole d’ingaggio. Il Pentagono ha annunciato che rimane invariata: prevenire il ritorno dell’Isis. Curioso, visto che il ritorno dell’Isis è il risultato dell’accordo stretto con la Turchia.

E i pozzi?

Formalmente è una missione subordinata a quella principale. La natura delle forze in campo però racconta una realtà diversa. Sono state rimosse alcune forze speciali, solitamente impiegate per obiettivi mobili, e sostituite con armeria pesante meccanizzata, che serve a proteggere obiettivi stazionari.

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