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Israele, Jihad islamica, Egitto. Cosa prevede l’intesa per fermare i razzi

C’è un cessate il fuoco in Israele. Dopo che gli ultimi due giorni hanno visto un’escalation di scontri – missili lanciati da Gaza, attacchi aerei israeliani. La jihad islamica palestinese (Pij), gruppo estremista islamico operativo dalla Striscia di Gaza, ha sparato oltre 400 razzi sul territorio israeliano, la maggior parte intercettati sopra aree civili dal sistema di difesa Iron Dome. Gerusalemme ha risposto con bombardamenti sulle postazioni jihadiste, che in un paio di occasioni hanno colpito i civili – sono stati uccisi almeno 20 militanti e un’altra dozzina di civili.

La scintilla che ha fatto (formalmente) scattare l’attacco palestinese lunedì mattina è stata l’uccisione di Baha Abu al-Ata, comandante della Pij, eliminato nella sua casa a Gaza con un attacco mirato. Quasi contemporaneamente, a Damasco (in Siria), c’è stato un raid simultaneo contro un altro leader del gruppo, Akram al-Ajouri, eliminato sempre con una missione aerea in cui sarebbero rimasti uccisi anche alcuni membri della sua famiglia (in quella contro al-Ata è stata uccisa pure la moglie). Gli attacchi mirati sono una tecnica che dal 2014 Israele non ha più utilizzato, ma che si sarebbe resa necessaria perché al-Ata stava organizzando attentati contro lo Stato ebraico.

Di mediare la tregua si sarebbero occupati gli egiziani, che hanno parlato in forma confidenziale con la Bbc e altri media internazionali. Lo stop ai combattimenti è partito dalle 05:30 di questa mattina. Non ci sono annunci ufficiali da parte di Israele, ma secondo quanto risulta ai media locali l’accordo ruoterebbe attorno a due punti: la Jihad islamica si impegna a stoppare il lancio di razzi contro Israele, che a sua volta accetta di non compiere più killing mission come quella contro al-Ata, e di non usare proiettili veri nel caso in cui durante manifestazioni qualcuno dovesse attraversare la Striscia.

La situazione era molto delicata, se si considera che nel 2012 un bombardamento israeliano simile a quello contro Abu al-Ata portò all’inizio della guerra tra Israele e Hamas: guerra reale, con Israele che aveva spostato reparti nella Striscia. Sebbene le condizioni a contorno al momento siano del tutto differenti: Israele ha una situazione politica interna complicata, e anche per questo non intende procedere con azioni militari di più larga scala. Anche perché in questa fase ha ottime relazioni con l’Egitto, vicino alla Striscia: legami solidi, basati sulla stabilità dei flussi di materie energetiche tra i due Paesi e nel quadrante del Mediterraneo orientale.

L’attacco contro il comandante del Pij è stata un’operazione specifica che non comporta passaggi successivi, un’azione limitata a colpire un comandante jihadista considerato pericoloso. È questo ciò che sostiene il governo israeliano. Le azioni conseguenti sono state solo una risposta, ovvia, alla pioggia di razzi caduta sullo Stato ebraico.

Un problema collegato all’accaduto riguarda Hamas, che durante questi due giorni di scontri è rimasta neutrale; gli attacchi anti-israeliani sono stati condotti esclusivamente dal Pij. Al Ata era considerato scomodo anche da Hamas, perché era un leader militante che muoveva le sue dinamiche in autonomia, e sfuggiva alla linea generale impostata dal gruppo che controlla Striscia. Hamas vive un fase più tiepida nelle relazioni con Israele; fase che le attività della fazione di jihad guidata da al-Ata rischiava di mettere in difficoltà.

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