La Fondazione Feltrinelli ha invitato a Milano, il 27 novembre, Joshua Wong, uno degli attivisti diventati il volto delle proteste che da mesi scuotono Hong Kong. Wong sarà poi a Roma per incontrare parlamentari di vari partiti. Qualcosa di simile lo aveva fatto in Germania (incontrando privatamente il ministro degli Esteri e pochi esponenti politici) e al Congresso degli Stati Uniti. Personaggio di attrazione internazionale, Wong è il leader del partito Demosisto, che anni fa guidava il movimento Scholarism, e sostiene da sempre le medesime posizioni dei manifestanti scesi in strada durante queste lunghe settimane di proteste iniziate a giugno.
Vogliono preservare il proprio status di semi-autonomia – garantito dal modello “Un paese, due sistemi” con cui la Cina ha accettato di gestire il Porto Profumato dopo la restituzione dal Regno Unito. Vogliono soprattutto evitare la cinesizzazione del paese. In piazza i giovani di Hong Kong hanno chiesto maggiore libertà. Tanto che una protesta partita contro una legge sull’estradizione decisa a Pechino si è ormai trasformata in una richiesta di democrazia. Il Dragone non recepisce certi malcontenti, anzi li sopprime. Le dimostrazioni in strada sono finite spesso in scontri con la polizia e nei giorni scorsi un ragazzo è morto per scappare da una salva di lacrimogeni. Mentre ieri un poliziotto ha sparato contro un manifestante, che adesso è in gravi condizioni.
Per la Cina le manifestazioni sono illegittime, tanto quanto la visita di Wong in Italia. Sulla questione è intervenuto anche il portavoce del ministero degli Esteri, che quando parla in conferenza stampa è usato dal Partito comunista al potere per dettare le linee del governo. Geng Shuag ha detto che Pechino non era a conoscenza dello spostamento di Wong, rispondendo a una domanda precisa. E poi c’è andato giù pesantemente: l’ha definito usando il termine “separatist“, e per un paese protocollare come la Cina questo ha un significato profondo. L’attivista di Hong Kong è stato indicato, alla stregua del Dalai Lama, nemico giurato del Paese. Quando il 24 novembre si voteranno per le distrettuali hongkonghesi, il nome di Wong non sarà infatti sulle liste. L’unico escluso dal governo centrale su centinaia di candidati.
Geng ha fatto pressioni pubbliche anche all’Italia – e qui val la pena ricorda che Roma è l’unico paese del G7 ad aver aderito all’infrastruttura geopolitica cinese Belt & Road, sotto svariate critiche secondo cui gli investimenti collegati si sarebbero poi trasformati in forme di pressioni politiche come queste su Hong Kong. La persona “invitata dall’Italia” ha dimostrato attraverso le sue azioni che ha delle visioni “a favore dell’indipendenza di Hong Kong – ha detto il portavoce del governo cinese – e noi ci opponiamo al tentativo di fornire qualunque piattaforma per le attività indipendentiste”.
La questione, spiega il cinese, è un affare interno della Cina e “nessun Paese, organizzazione o individuo ha il diritto di interferire”, dice Geng. E sembra di sentir parlare il ministro degli Esteri italiano, Luigi Di Maio, che nei giorni scorsi – mentre era alla seconda edizione del Ciee Shanghai in visita ufficiale – davanti una domanda del corrispondente di Repubblica ha detto: “Noi in questo momento non vogliamo interferire nelle questioni altrui e quindi, per quanto ci riguarda, abbiamo un approccio di non ingerenza nelle questioni di altri Paesi” a proposito della crisi hongkonghese. È una linea non nuova per il Movimento 5 Stelle, intrapresa già dal sottosegretario agli Esteri, Manlio Di Stefano, che il 4 luglio, arrivato a Hong Kong per siglare un accordo inter-universitario, ha detto che quello era “un momento difficile”. Niente più: non una parola su diritti, democrazie, libertà, giustizia.
Una posizione abbastanza singolare tra i paesi europei. Molti si sono esposti, hanno alzato richiami e avvisi alla Cina, alcuni hanno sposato le posizioni dei manifestanti. L’Italia non ha scomodato Pechino invece. Forse inconsapevolmente (col beneficio del dubbio), sembra intenda seguire la linea dettata dalla Cina. Il governo cinese non vuole che si interferisca in vicende politicamente calde come quella di Hong Kong. E soprattutto non vuole assolutamente che a farlo siano paesi che si sono avvicinati alla sfera cinese. Italia e Cina “non sono mai state così vicine”, ha d’altronde spiegato sempre Di Maio.
L’Italia sta finendo nella trappola con cui i cinesi comprano alcune posizioni politiche, e “certamente il ministro Di Maio poteva stare zitto, si comporta da paese satellite della Cina. Una vergogna” – commenta Alberto Forchielli, managing partner del fondo di private equity sino-europeo Mandarin Capital Partners – C’è il modo di lavorare con Pechino senza cadere in certe cose: basta avere schiena dritta e cervello acceso”.
Wong è stato già protagonista di un episodio che ha portato la Cina a esporsi direttamente contro gli Stati Uniti. A inizio agosto aveva incontrato, con altri manifestanti, Julie Eadeh, capo dell’unità politica del consolato generale degli Stati Uniti a Hong Kong. Le foto di quell’incontro, avvenuto in luogo pubblico, furono diffuse dalle televisioni cinesi aggiungendo dettagli personali sulla vita privata della funzionaria statunitense.
Pechino ha usato la vicenda per sostenere che le proteste di Hong Kong sono un piano studiato dalla Cia per destabilizzare il paese – reazione tipica dei regimi autoritari: quando i propri cittadini avviano dimostrazioni c’è sempre un nemico esterno dietro. Washington in quell’occasione definì duramente il governo cinese, “un regime criminale”, per aver violato la privacy della diplomatica contravvenendo agli accordi internazionali. Fu una delle pagine di maggiore tensione del dossier Hong Kong.
(Foto: Twitter, @joshuawongcf)