Da alcuni anni la consapevolezza che l’eurozona, avendo delegato la politica monetaria (ma solo quella) ad un organismo sovranazionale, possiede delle caratteristiche di fragilità particolari, che occorre gestire con attenzione e strumenti ben più ampi della sola moneta, ha spinto a proporre la predisposizione di un bilancio ad-hoc. Un bilancio che dovrebbe servire: a stabilizzare l’area in caso di shock, soprattutto se asimmetrici; aiutare la convergenza fra le economie; renderle più competitive sul piano globale.
Con queste premesse solenni, il mese scorso l’eurogruppo ha finalmente raggiunto un accordo per il varo di un bilancio dell’eurozona, da far rientrare all’interno del Multiannual Financial Framework, il bilancio pluriennale dell’Unione Europea, con l’idea di finanziarlo con risorse aggiuntive degli Stati aderenti (e con l’ipotesi audace di adottare pure una specie di eurobond, il quale potrebbe diventare il safe financial asset per l’eurozona, ossia a rischio zero, perché tutelato da un impegno collettivo di tutti i paesi, un po’ come i titoli emessi dal tesoro USA).
Un accordo straordinario, che sembra aprire uno spiraglio verso una vera e propria politica economica ed industriale europea, verso l’idea di un’Europa capace di essere attore sovranazionale in grado di rispondere in maniera pronta ed efficace ai bisogni dei propri cittadini ed alla competizione mondiale. Un’ipotesi che, tuttavia, scopriamo essere, nei tavoli concreti di negoziazione, ridicola.
Sulla stabilizzazione dell’area in caso di shock l’opposizione intransigente dell’Olanda ha fatto si che non venisse adottata alcuna politica macroeconomica comune. Sulla convergenza si scopre che i fondi dovrebbero essere destinati unicamente a coprire i costi diretti degli interventi per gli adeguamenti strutturali. Sulla competitività manca completamente un accordo che definisca una concreta politica industriale europea, tale da renderla effettivamente in grado di competere coi colossi produttivi, digitali, finanziari del mondo.
Tanto che viene da chiedersi quale sia, a questo punto, l’ammontare delle risorse da mettere a disposizione, visto che a tali risorse non corrispondono competenze serie. La risposta è presto detta: 17,5 miliardi di euro per la prossima programmazione. Esatto, avete capito benissimo: in Europa si sono accapigliati per tentare di creare un bilancio per l’eurozona di diciassette miliardi e mezzo di euro su sette anni e per 19 paesi!!! Praticamente una media di 130 milioni di euro l’anno a paese… Se non fosse tragico verrebbe da ridere.
Non è chiaro se si tratti di una somma definitiva, o se in extremis i nostri abili negoziatori riusciranno magari a portare quella cifra fino allo strabiliante livello di 18, o persino 20 miliardi… Quello che invece è chiarissimo, è che i cittadini dell’eurozona, appena avranno compreso l’immane sforzo negoziale per portare sotto una gestione comune e solidaristica 100 milioni di euro l’anno (ma solo in teoria, perché con i paletti che sono stati messi, di fatto significa che ciascun paese si ripaga, oltretutto con i propri soldi, giusto i costi di qualche aggiustamento strutturale), si sentiranno presi per i fondelli. E la fiducia nel progetto della costruzione europea come genuina democrazia sovranazionale e punto di riferimento credibile e coeso nella turbolenza economico-finanziaria mondiale, sarà sempre più indebolita.
Questa non è nemmeno un’Europa dei piccoli passi; è un’Europa immobile, una grottesca ed oscena caricatura di quel progetto avviato settant’anni fa per reagire agli orrori della Seconda Guerra Mondiale. E di beffa in beffa, il contatto delle istituzioni europee coi cittadini (noi) rischia di andare perso per sempre.