La Libia non è solo immigrazione: c’è una guerra e l’Italia ha capacità e forza politica per aiutare a stabilizzare il paese. Per questo dai libici viene richiesto un maggiore interessamento, non solo legato al controllo dei rubinetti migratori, ma anche nel fermare le armi che hanno prodotto morti, feriti e sfollati interni. Vicendevolezza nell’affrontare interessi e priorità.
Da Tripoli le richieste di modificare il memorandum d’intesa sulla gestione dell’immigrazione avanzate dall’Italia vengono prese con buona (sebbene accorta) apertura. Disponibilità del governo libico a lavorare su tutto, in attesa che Roma avanzi le proprie necessità, per ora solo anticipate ai giornali e non definite nero su bianco. Il rispetto dei diritti umani nei centri di accoglienza dei migranti irregolari è l’argomento sul tavolo della commissione congiunta invocata dagli italiani.
Nota dimostratesi dolente da quando, nel 2017, l’intesa è entrata in funzione. I profughi fermati in Libia prima di prendere il mare per l’Italia sono bloccati in quelle che vengono chiamate letteralmente “prigioni”, trattati a volte in modo disumano, e per questo l’Italia ha invitato la controparte a lavorare per rivedere i metodi di applicazione del trattato (entrato in rinnovo automatico dal 2 novembre).
Fonti libiche dal Governo di accordo nazionale, il Gna guidato da Fayez Serraj, fanno notare però che dall’Italia si aspetterebbero anche qualcosa in più. Ossia chiedono all’esecutivo Conte-2 di non essere cercati solo per parlare di immigrazione. “In Libia c’è la guerra, val la pena ricordarselo”, commentano. Tripoli è sotto attacco da sette mesi, ossia da quando il signore della guerra dell’Est, Khalifa Haftar, ha lanciato un’offensiva per conquistare la capitale, rovesciare il Gna sostenuto dalle Nazioni Unite e prendere il controllo dell’intero paese come nuovo rais.
Dalla Libia chiedono reciprocità. L’immigrazione in cambio di una posizione più netta dell’Italia contro Haftar, che invece viene ancora visto da Roma come un interlocutore potenziale nonostante nel suo assalto a Tripoli si sia macchiato di crimini di guerra contro i civili. Per dire, a luglio ha bombardato pure un centro migranti, e l’unico a condannarlo nettamente fu l’allora ministro dell’Interno, Matteo Salvini.
Roma sta procedendo con andamento incerto e poco attivo sul dossier centrale per la stabilizzazione del Paese — e dunque, tra l’altro, fondamentale anche per il tema migratorio. Ai libici non è particolarmente piaciuta la visita del ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, in Marocco. Secondo chi ci segnala questo parziale scontento di Tripoli, il neo-capo della Farnesina per la sua prima uscita avrebbe potuto scegliere la Libia. O quanto meno includerla come scalo del viaggio nordafricano, visto l’importanza reciproca per i fascicoli (guerra e immigrazione) aperti tra i due Paesi.
È chiaro che il viaggio sia usato come simbolo. La richiesta sta nel ravvivare un’azione di carattere politico con cui affrontare la risoluzione di una guerra a pochi chilometri dalle coste italiane, su cui Roma ha perso via via iniziativa, forse interesse, e dunque terreno diplomatico.