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Banche e debito. Ecco i (pochi) margini di trattativa dell’Italia sul Mes

Non potranno dire no a tutto. Difficile anche ottenere un congelamento della riforma del Mes, come ipotizzato nelle ultime ore da media e politica. La riforma del meccanismo europeo di stabilità finito al centro dello scontro politico tra Lega e governo dovrebbe andare avanti secondo i piani e vedere la luce il 13 dicembre del 2019, spiegava ieri una fonte europea.

Ma il governo italiano spera ancora di fare tornare quella “logica di pacchetto” che aveva caratterizzato le prime fasi del dibattito sulla riforma già con il precedente esecutivo. In sintesi il premier Giuseppe Conte e il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri cercheranno di portare a casa insieme al nuovo “salva stati” (con regole oggettivamente più vincolanti per i paesi indebitati come l’Italia) anche un altro pezzo di riforma della governance dell’area euro, la garanzia unica sui depositi bancari. Ed è un passo verso l’unione bancaria nel continente da sempre osteggiata dalla Germania, fino a quando il ministro delle finanze di Berlino Olaf Scholz non ha dato una disponibilità a introdurla, ponendo però delle condizioni fortemente penalizzanti per le banche italiane. In sintesi, vincoli più stringenti sui crediti in sofferenza e, soprattutto, dei limiti alle quantità di titoli di debito pubblico detenuti dalle banche.

Sulla proposta Scholz, al Consiglio europeo di metà dicembre l’Italia potrà dare legittimamente battaglia, visto che questa parte della riforma dell’Eurozona non fa parte della bozza del nuovo statuto del Mes approvata all’Eurogruppo del giugno scorso. Se il vertice dei capi di governo europeo approverà solo il nuovo salva Stati senza la garanzia unica sui depositi bancari, sarà una sconfitta per l’Italia. In caso contrario, un pacchetto di riforme che sulle banche non abbia l’impronta di Sholz, non potrà che essere considerato un successo per il governo.

Ma qualche micro modifica potrebbe passare anche sul nuovo Mes. L’ex ministro dell’Economia Giovanni Tria in un’intervista ha rivendicato un risultato ottenuto durante la trattativa. “Alcuni Stati volevano che si prevedesse che le metodologie specifiche per valutare la sostenibilità dei debiti sovrani fossero rese pubbliche”, mentre “per noi era inaccettabile” perché avrebbe significato “aprire una corsa a valutazioni prospettiche anche fantasiose su un tema per noi di stretta competenza della Commissione che è un organo politico”.

In altre parole, se la valutazione sullo stato delle finanze pubbliche di un Paese, e soprattutto sulla sostenibilità del suo debito, fosse affidata a un algoritmo a disposizione delle agenzie di rating e degli investitori, basterebbe poco a scatenare una raffica di vendite di titoli di uno Stato indebitato come l’Italia. La valutazione deve restare politica e quindi un potere della commissione. Di questa precauzione anti-speculatori nel testo c’è traccia quando si spiega che le valutazioni verranno condotte dalla “Commissione europea di concerto con la Bce” e dal Mes “ove opportuno insieme a Fmi”. Ma si sostiene anche che “sostenibilità del debito e capacità di rimborso saranno valutate all’insegna della trasparenza e della prevedibilità, consentendo al contempo una sufficiente discrezionalità”. Formulazione ancora un po’ ambigua che lascia aperta la porta a quegli automatismi nel giudicare le finanze degli stati che l’Italia vuole evitare a tutti i costi.


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