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Il moralismo senza morale

Quando persino il New York Times arriva seriamente a chiedersi se sia il caso di censurare un pittore come Paul Gaugin e le sue opere, esposte in una mostra tematica sui suoi rapporti con le giovanissime donne polinesiane alla National Gallery di Londra, credo che dovremmo preoccuparci. Soprattutto se si intende censurare opere d’arte esprimendo un giudizio morale su un Autore, anche se è stato definito un “pedofilo arrogante, sopravvalutato e altezzoso”, come sostiene indignata la co-fondatrice del museo online girlmuseum.org, Ashley Remer.

Che Gaugin abbia usato la sua posizione di occidentale dominante per avere rapporti sessuali con giovanissime ragazze polinesiane, credo sia facile supporlo; come è facile immaginare che in questo abbia semplicemente (magari liberamente) interpretato gl’insegnamenti della madre, femminista ante litteram e fautrice dell’amore libero. Così come si può immaginare che certi suoi atteggiamenti – forse addirittura sadici – nei confronti delle donne, possano essere stati lo specchio di una sorta di nemesi nei confronti di una sorella che si era dimostrata col piccolo Paul altrettanto dispotica e sadica (quantomeno sotto il profilo psicologico). Che poi Gaugin fosse una personalità irrequieta, ribelle, avventurosa, con un carattere sovente mutevole ed insofferente, emerge anche dai suoi scritti autobiografici.

Ma censurare un artista per i suoi comportamenti sessuali mi pare talmente agghiacciante che penso dovremmo essere tutti preoccupati per una deriva moralista che sembra in effetti di poter ravvisare in maniera crescente ed allargarsi a macchia d’olio. Non solo nella moralista America. O in Canada, dove un’altra mostra di Gaugin aveva sollevato già analoghe perplessità.

D’altronde negli USA impera il moralismo del politically correct. Come quando l’anno scorso veniva abbattuta a Los Angeles la statua di Cristoforo Colombo, paragonato ai peggiori criminali di guerra moderni, ritenuto responsabile per lo sterminio dei nativi americani, trasformato da simbolo dello spirito di avventura nella stagione delle scoperte geografiche a caricatura di un brutale colonialista assassino. Ma si potrebbe naturalmente ricordare anche la vicenda che ha portato alla ribalta internazionale Monica Lewisnky, dei cui dettagli (peraltro evidentemente scontati ma morbosamente diffusi) non sentivamo affatto la necessità.

Non solo Stati Uniti, dicevamo. Già, perché il moralismo ipocrita così di moda negli USA si sta allargando a macchia d’olio, attraverso i mezzi di distrazione di massa statunitensi. Non ci credete? Qualche mese fa a Firenze i curatori della mostra su Natalia Goncharova avevano scelto come immagine-copertina dell’iniziativa il quadro che vedete nell’immagine qui sopra, dal titolo “Modella”. Ebbene, l’immagine veniva bannata (sembra per errore: colpa degli algoritmi con cui lavora il social network) da Instagram (proprietà di Facebook) perché considerata lesiva del pubblico pudore. D’altronde era già successo in occasione della mostra di Marina Abramovich.

Una vicenda amaramente ironica, in questo caso. Perché quella stessa opera d’arte aveva subito gli strali della censura sovietica nel 1910. All’epoca l’Autrice fu poi assolta dall’accusa di pornografia. Questa volta Instagram ha dovuto togliere il ban. Ma rimane l’inquietudine strisciante per un moralismo che poco ha a che fare con la moralità. Anzi; spesso il moralismo nasconde proprio la mancanza assoluta di una morale.

Ma visto che abbiamo affrontato il tema della morale, se una morale vogliamo trovare in queste vicende è che, per difendersi dal moralismo importato dagli USA, occorre oggi dotarsi di una piattaforma digitale social (europea?) con algoritmi che abbiano una morale diversa. O quantomeno che, nello spirito di una cultura europea più pluralista, laica e generalmente meno moralista di quella statunitense, sappiano distinguere il nudo di un’opera d’arte dalla foto di uno stupro nei bagni di una scuola.

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