Coglie pienamente nel segno l’analisi di Roberto Arditti, quando evidenzia la vistosa contraddizione fra una sensibilità verso i temi ambientali che oggi pone i giovani italiani sulla vetta d’Europa (76%, quasi dieci punti in più dei giovani tedeschi) e l’incapacità di questo dato di trasformarsi, nel nostro Paese, in forza politica (partito? movimento?) in grado di catalizzare un consenso elettorale se non corrispondente, almeno sufficientemente proporzionato. Piazze piene, venerdì scolastici con aule meno frequentate, però urne vuote o quasi, in Italia. Tutto questo mentre, in effetti, in Germania e Francia il fronte ambientalista traguarda risultati di oggettivo rispetto, e in Austria esprime addirittura il Capo dello Stato. Il punto è chiaro, e il mistero si avvolge dunque, intorno a quello che Arditti ribattezza efficacemente come il “partito che non c’è”. Ma perché non c’è? I fattori sono tanti, e rendono l’analisi complessa e le risposte non scontate. Eppure, alcune considerazioni appaiono possibili.
L’ANALSI DEI FATTORI
Anzitutto, il “partito che non c’è” dà l’impressione di star facendo ancora i conti con la tradizione del fronte ecologista italiano, il quale per decenni ha scelto in prevalenza una posizione di più o meno marcata contiguità all’area progressista, che per un verso gli ha alienato le simpatie (e il voto) dell’elettorato di estrazione moderata, e per l’altro ha in qualche misura trascinato le forze ambientaliste (più legate al voto d’opinione che al senso di disciplina e alla forza dell’apparato) nella lunga e difficile traversata nel deserto che il centrosinistra ha soffertamente compiuto negli ultimi 30 anni. In secondo luogo, al senso di disaffezione degli italiani verso le forze ambientaliste con vocazione alla rappresentanza democratica ha certamente contribuito una troppo vivace dialettica interna alimentata, per anni, da forti rivalità individuali. In terzo luogo, non ha giovato allo sviluppo di una presenza politica stabile e forte (o, se si preferisce, stabilmente forte) del mondo ambientalista l’aver troppo spesso preferito – su questioni grandi e piccole – un approccio destruens a quello costruens (per vero non sempre è stato in effetti così, ma quella è però stata la diffusa percezione nel Paese, complici anche talune narrazioni un po’ distorsive).
IL QUADRO GENERALE
Inoltre, il Paese è nel frattempo cambiato, molto cambiato. Quel tipo di offerta politica non riesce evidentemente più ad intercettare un sentimento (non solo popolare) che pure mostra fortissima attenzione verso i temi ambientali. Non è solo che l’elettore italiano medio appare oggi più volubile, più mobile, più inafferrabile, meno o ben poco condizionato da dogmi e ideologie. È anche di riflesso, che certi rigidi schematismi nella strutturazione della rappresentanza politica sono stati travolti dalla storia (quella mondiale e quella nazionale), sicché determinate equazioni (presupposto primo per scelte di campo di contiguità) funzionano meno e, forse, non funzionano proprio più. Cambiato del resto, e non poco, è anche l’atteggiamento di tanta parte del mondo produttivo, un tempo considerato (non di rado a ragione) “dall’altra parte”, e oggi invece attivamente impegnata sul versante della sostenibilità, anche attraverso complessi processi di riorientamento strutturale della produzione. Laicamente, v’è al riguardo da dire che dietro diverse di queste scelte c’è, realmente, una nuova etica della produzione, ma anche quando la spinta motivazionale è invece meno alata e utilitaristica (perché guarda, ad esempio, alla valorizzazione degli asset reputazionali, oggi di enorme importanza), l’essenziale è che quelle scelte vengano in concreto compiute, perché vanno in ogni caso nella direzione giusta.
GLI IMPEGNI INTERNAZIONALI
Poi, come dimenticarlo, c’è la cornice degli impegni internazionali per il clima. Impegni, questi, che seppure ancora lontani dal trovare un soddisfacente grado di realizzazione, a partire dalla Conferenza di Rio de Janeiro del giugno 1992 (con la inedita partecipazione di 172 governi e 108 capi di Stato o di governo, e 2.400 rappresentanti di Ong) hanno sempre più trasformato un tema verso il quale si registrava diffusa sensibilità in una parte dei cittadini, in una grande questione politica planetaria che responsabilizza, in modo diretto, i governi e i dirigenti politici dei singoli Paesi. Di qui, una crescente orizzontalizzazione delle questioni ambientali all’interno delle politiche nazionali, al di là della differente capacità, nei diversi Stati, di tradursi in specifiche offerte politiche di rappresentanza democratica.
Ancora, in pochi ambiti come in quello ambientale il diritto Ue ha eterodiretto con tanta forza (anche sul piano quantitativo) il cambiamento del quadro regolatorio di riferimento. Sottraendo così spazi alla possibilità (e per vero alla stessa occasione) di elaborazione di proposte e progettualità politiche distintive, a livello nazionale. Per molti versi un bene, ma certamente uno stimolo in meno (e forse un alibi in più) allo sviluppo, per la gran parte mancato, di una forte coscienza popolare del ruolo utile di forze ecologiste all’interno del quadro politico italiano. Questo e molto altro, con il risultato finale che i voti degli italiani sono stati cercati, ma – salvo che in brevi e peculiari stagioni della politica nazionale – non sono arrivati.
RICOSTRUIRE L’AMBIENTALISMO
Oggi il campo ideale dell’ambientalismo, come spazio politico sullo scacchiere nazionale, va costruito daccapo, tenendo presente la lezione di questi anni. Iniziando, intanto, dal tema principale: l’idea, ricorrente, di arginarlo unicamente all’interno dei confini propri di una forza politica specifica, di tipo dedicato. Più che di un partito, che non c’è, l’impressione è che serva intanto una classe di dirigenti politici (anche di orientamento culturale diversificato) fortemente contraddistinta non solo da un sapiente dosaggio di novità e di esperienza, ma soprattutto, metodologicamente, da una visione non atomistica ma d’insieme. Una visione nella quale la spinta destruens e quella costruens riescano a restare insieme, le scelte politiche trovino la capacità e la forza di contestualizzarsi nelle differenti situazioni concrete di riferimento, accanto e insieme alla non negoziabilità di certi valori e temi, cadano i tabù pregiudiziali verso categorie concettuali (penso a “politica industriale”) che hanno oggi una forza (prima che un significato) transcontinentale.
VERSO IL FUTURO
Il senso del futuro (che ci fa primeggiare, anche se con oneri complessivi ancora molto importanti, sul fronte delle rinnovabili), sappia accompagnarsi alla cura del nostro paesaggio, delle nostre tradizioni, delle nostre eccellenze (non solo a tavola) che fanno fra l’altro dell’economia del turismo una delle più floride del nostro Paese. Infine che trovi largo spazio il coinvolgimento e la collaborazione – anche a costo di inventare strade e forme nuove, di relazione e di organizzazione – della parte più sensibile del mondo produttivo e, aggiungo, di quella più propensa a fondere tavole valoriali e pragmatismo nell’ambito dell’ampio mondo dell’attivismo civico (risorsa straordinaria, e ancora poco valorizzata). Abbiamo tutto questo? Penso di sì, ma ancora disperso nei territori e nelle città, nelle culture, nelle professioni e nel mondo produttivo fra la gente, e va perciò cercato e costruito. Con pazienza, ma a partire da subito.