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L’Emilia-Romagna? Un test nazionale che il Pd non può perdere. Firmato Pasquino

Lo sanno tutti che il 26 gennaio 2020 si voterà per eleggere il presidente della regione Emilia-Romagna. Che c’è un presidente in carica, Stefano Bonaccini, giustamente ricandidato dal Partito democratico, e che c’è una sfidante della Lega, Lucia Borgonzoni. Sanno anche, gli elettori, mentre i commentatori si esibiscono in spericolate arrampicate sugli specchi, che molti pensano che la sfida abbia sapore, ma, quel che più conta, effetti nazionali. Infatti, vincendo l’Emilia-Romagna, regione simbolo della sinistra, anche più della Toscana, la Lega e il centro-destra rivendicheranno la guida del paese. Sosterranno, lo scrivo con parole colte, che il governo legale, quello prodotto dal Parlamento eletto nel marzo 2018, non rappresenta più il paese reale, quello che, elezione locale dopo elezione locale, dimostra l’esistenza di una maggioranza numerica (probabilmente anche politica) del centro-destra.

Non c’è nessuna contraddizione a pensare che in un’elezione importante si possano ritrovare ed esprimere due significati. Il balletto della, non so come chiamarla, dirò sinistra (almeno fino quando non irromperà Renzi…) che mira a restringere l’effetto delle elezioni al solo ambito locale, è scomposto e mal posto. Lo è soprattutto, ma attendo le autorevoli parole di Dario Franceschini, per coloro che vorrebbero costruire un’alleanza “organica” fra Pd e Cinque Stelle, che numeri alla mano, è la sola potenzialmente in grado di impedire una prossima vittoria nazionale del centro-destra.

In preda a sue convulsioni politiche e personali, Di Maio non sa decidere che cosa sia meglio: appoggiare esplicitamente il candidato del Pd (convintamente mi pare troppo per lui e per i Cinque Stelle emiliano-romagnoli che hanno prosperato sulle passate difficoltà del Pd e sulla insoddisfazione grande di parte dell’elettorato di sinistra, insoddisfazione non terminata che sta parzialmente confluendo nella Lega) oppure fare altro, al momento del tutto imprecisato, fino al suicidio non assistito di non presentare liste. Nel caso della non presentazione delle liste pentastellate, già di per sé brutto messaggio, e della successiva sconfitta del candidato del Pd, non resterebbe che prendere atto che la coalizione nazionale Cinque Stelle-Partito democratico non soltanto è del tutto occasionale, ma non ha, almeno fintantoché Di Maio rimarrà capo politico del Movimento, nessuna probabilità di estendersi e rafforzarsi.

La notizia potrebbe persino essere buona per il governo Conte. Disarticolati sul territorio, i due temporanei alleati nazionali sanno che le elezioni politiche sarebbero per loro disastrose. Quindi, fra tensioni e conflitti e un tristissimo stillicidio di noiosissime dichiarazioni tireranno a campare, oramai lo sanno tutti, fino alla lontanissima data dell’elezione del prossimo Presidente della Repubblica (gennaio 2022). Non basteranno le molte “sardine” (dimostranti) in Piazza Maggiore a Bologna e neppure i giornalisti di Repubblica che sostengono che il PalaDozza non era pieno come se questo fatto ridimensionasse i voti che andranno alla Borgonzoni. Incidentalmente, il sottoscritto che, tifoso di basket e abbonato Virtus, il PalaDozza lo conosce bene, giovedì sera ci è andato e può assicurare che era sostanzialmente al completo con un centinaio di persone in piedi.

Where do we go from here? Qualcuno direbbe, magari lo dico io, che bisogna ripartire dalla realtà: alzare la posta senza fare paragoni alla Zingaretti fra gli anni Venti del secolo scorso e i “nostri” imminenti anni Venti. Sì, le elezioni in Emilia-Romagna sono un test nazionale, ma la Lega può permettersi di non vincere. Il Partito democratico e i suoi sostenitori non possono permettersi di perdere. I Cinque Stelle sono forse già allo stadio in cui non sanno neppure più che cosa possono permettersi e no.

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