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Per la Cina gli Usa soffrono di ansia sostitutiva. Quattro grafici spiegano perché

Su Twitter, il vicedirettore del dipartimento informazioni al ministero degli Esteri cinese, ieri ha scritto: “Gli Stati Uniti soffrono di ‘ansia sostitutiva’. Gli Stati Uniti stanno facendo tutto il possibile per indebolire e fermare lo sviluppo della Cina. Tuttavia, è stupido quanto Don Chisciotte contro i mulini a vento. Dati i tassi di crescita del Pil del 6% contro il 2%, la Cina supererà gli Stati Uniti tra 10 anni. La vittoria della Cina è inarrestabile”.

Si può contestarne i toni da propaganda e non da membro del sistema diplomatico, e forse le parole vanno inserite nel quadro retorico duro creato dal passaggio in legge negli Usa di una misura a supporto dei manifestanti di Hong Kong. Una decisione che secondo i cinesi mostra “intenzioni sinistre” da parte degli americani, i quali invece la usano come riaffermazione forte sul piano dei diritti democratici. Diventati un vettore valoriale profondo da mettere in contrapposizione a quei dati altrimenti incontrovertibili (anche sulla base delle proiezioni).

Come dire: state guadagnando la vetta del mondo, ma state seguendo dinamiche di carattere autoritario, distanti anni luce dal sistema di diritti e valori professato per anni da quello che chiamiamo “Occidente” e che finora ha retto l’ordine globale dopo la Seconda guerra mondiale (per intenderci: è difficile paragonare la Belt and Road Initiative, l’infrastruttura geopolitica cinese per agganciare l’Europa, con quel bagaglio di cultura democratica che il Piano Marshall si portava dietro, sebbene qualche fan del Dragone non troppo attento si spertichi in certe simmetrie).

Ma i numeri sono numeri, i fatti infrangibili. Il Financial Times fotografava in modo efficace il motivo di quello che l’alto funzionario cinese ha definito “ansia sostitutiva” (sintomatologia depressiva) e sostanzialmente dello scontro tra potenze Usa-Cina di cui da anni leggiamo i prodromi e adesso vediamo gli effetti (anche per via di un’amministrazione americana più diretta e meno protocollare, forse più naïf). In quattro grafici è ripresa la diffusione globale degli Stati Uniti o della Cina come fornitore estero per i vari paesi del mondo negli ultimi diciotto anni di tempo-linea.

Il primo grafico è del 2000, e gli americani — salvo rare eccezioni — dominano un impero totale. Dall’Atlantico, in Europa, al Pacifico, sono in netto vantaggio. In quasi tutti gli Stati sorpassano la Cina per export — che è non solo una questione di carattere economico-commerciale, ma anche di influenza politica.

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La situazione cambia a colpo d’occhio già nel flash del 2005. La Cina è diventata, nel giro di soli cinque anni, un esportatore più potente degli Usa in tutto l’Oriente e in Africa (escluso l’Egitto) e il Medio Oriente (escluso Iraq e Arabia Saudita), con forti penetrazioni in Europa. Agli Stati Uniti resta l’influenza nel continente americano e in due paesi chiave europei: Francia e Regno Unito. Dal grafico l’Italia e la Germania risultano già commercialmente cinesizzate. Ad est c’è l’Australia, fortezza anglofona che negli anni successivi verrà  però assorbita nella sfera d’influenza cinese.

Questo secondo grafico è importante perché è il primo che segna la situazione dopo l’11 dicembre del 2001, data in cui l’economia mondiale ha avuto il più radicale cambiamento della storia recente: l’ingresso della Cina nel Wto.

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Lo spaccato successivo è atroce. Tutti gli stati europei almeno dal 2010 hanno uno scambio commerciale più intenso con la Cina che con gli Usa,  che intanto cominciano a perdere un pezzo importante in Sudamerica: l’Argentina.

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Con un balzo rapido al 2018, per Washington la situazione diventa ancora più critica: ha recuperato il Regno Unito (e forse è anche frutto di una scelta di campo legata a dover gestire la Brexit nel quadro del bipolarismo trumpiano), ma perso tutti i paesi più importanti del subcontinente americano (a eccezione della Colombia).

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La questione è complessa, ma fondamentalmente riassumibile tagliando un po’ con l’accetta. Quando gli Stati Uniti hanno voluto la Cina nel Wto lo hanno fatto costatandone la spinta industriale, commerciale, economica e finanziaria. Hanno pensato alla proiezione futura, e hanno cercato con l’inclusione di ottenere un contraccambio politico: l’idea era che il libero mercato, coi suoi prosperi luccichii, avrebbe portato Pechino a modifiche profonde, adattandosi al modello occidentale. Questa visione strategica è ora fortemente contestata negli Usa, perché si è rivelata inefficace. La Cina ha sfruttato i benefici del Wto per rafforzarsi, ma è rimasta sempre una realtà autoritaria governata da una dittatura di partito.

Inoltre i cinesi hanno sfruttato il sistema a loro vantaggio: gli aiutini statali alle imprese e la sussistenza centralizzata rende le società cinesi concorrenti sleali rispetto a quelle occidentali. Non solo, Pechino è accusato di aver manipolato la propria moneta per spingere l’esportazione e di giocare con manovre economico-finanziarie come maquillage sui propri conti. Di più: il governo cinese ha anche spinto un piano mastodontico di attività di intelligence che hanno costruito trampolini di lancio con cui le ditte — ossia lo Stato, o meglio il Partito — hanno potuto sviluppare tecnologia partendo da studi, dati e informazioni rubate, battendo sul tempo i concorrenti.

Ora il punto critico. La forza economica sella Cina, sebbene sia in una fase di spinta un po’ rallentata, si sta portando dietro forme di ricatto politico. Sovente Pechino pone paletti ai paesi partner sulla libertà di gestione di questioni chiave, come in questo periodo la crisi di Hong Kong (guardare quel che è successo in questi giorni all’Italia) o le repressioni nello Xinjiang, o ancora i rapporti con Taiwan e in generale temi che comprendono rispetto dei diritti e comportamenti democratici. È la sfida dell’Occidente su cui gli Usa, non senza interesse come si è visto, chiedono aiuto agli alleati-nei-valori, e dunque agli europei.

Su temi del genere si basa il futuro dei rapporti con la Cina: se l’Europa riuscirà a preservare il rispetto e la coltivazione dei propri valori fondativi, e riuscirà ad aver voce con Pechino nei casi in cui ne è carente, senza subirne ricatto, allora potrà esserci una coesistenza funzionale. Altrimenti il rischio è che il Dragone si troverà in mano la possibilità di usare la forza in qualsiasi momento lo riterrà necessario.

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