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Energia e geopolitica. Perché il prezzo del petrolio cresce in Iran. L’analisi di Valori

Le proteste contro l’aumento e la progressiva limitazione del consumo del carburante da autotrazione, in Iran, sono iniziate il 15 novembre scorso ad Ahvaz, quando il governo di Teheran ha annunciato l’aumento del prezzo del carburante al massimo del 300%. Si sono quindi diffuse rapidamente nelle principali città iraniane.

Prima della nuova norma, i titolari di un’auto potevano acquistare fino a 250 litri di carburante al mese, al prezzo politico di 15mila rial al litro, per i primi sessanta litri, e poi al costo di 30mila rial per litro per i successivi acquisti dopo i sessanta litri. Il rial vale, oggi, è bene notarlo, circa 0,000027 euro.

La rivolta, stranamente simile a quella che ha dato origine alla reazione del gilets jaunes in Francia, nasce dal fatto che la normativa, quella appena approvata, concede un prezzo sussidiato di 15mila rial per litro ai soli primi 60 litri, ma obbliga al nuovo prezzo di 30mila rial per litro dopo questo limite.

Insostenibile per il cittadino medio iraniano, che è costretto a usare l’auto in modo più continuo di quanto non accada all’abitante delle periferie occidentali.
Un aumento del prezzo, quindi, sia pure nascosto, del 300%, visto che tutti gli iraniani che posseggono una automobile superano largamente i 60 litri per mese.

Le rivolte, anche con qualche vittima, una a Sirjan, ma poi la ribellione si è diffusa anche a Mashhad, la seconda città più grande dell’Iran, e poi a Qods, un sobborgo della capitale, sono state di massa e la reazione della polizia, delle Forze Armate e dei Basiji non si è fatta attendere.

La questione del contingentamento del petrolio, per i consumatori iraniani, si inserisce nella triangolazione strategica Iran-Arabia Saudita e Usa per la gestione geopolitica di questa commodity.

Nel settembre 2019, infatti, vi sono stati degli attacchi con dei droni, probabilmente lanciati dall’Iraq o, anche, dallo Yemen in mano ai ribelli Houthi, legati all’Iran, che hanno colpito alcuni pozzi sauditi.
La condanna è stata unanime, in Occidente, ma la questione è un’altra: si conquistano oggi, nel mondo arabo e islamico, aree aggiuntive di estrazione, lo fanno tutti quelli dell’Opec, destabilizzando Paesi produttori, e aggregandoli al loro sistema estrattivo e di prezzi.

D’altra parte, il diritto alla razzia è coranicamente stabilito. “Il Bottino” è il titolo della Sura 8 del Corano, medinese, che stabilisce (v.8) che “il bottino appartiene ad Allah e al Suo Messaggero”.

Al Profeta apparteneva comunque un quinto (khums) di ogni razzia di guerra, almeno a partire dalla battaglia di Badr (642 d.C. anno secondo dell’Egira).

Ma, come si dice nel versetto 8:41, al Profeta Muhammad spettava un quinto di tutte le finanze pubbliche della tribù islamica, mentre tutto il resto andava distribuito in parti eguali tra i membri della spedizione. Uno dei fondamenti, questo, dello specifico “socialismo arabo”.

Al Profeta veniva concessa anche una ulteriore parte del bottino, come membro della spedizione guerriera.

Stiamo parlando di culture in cui la guerra è connaturata all’azione politica e all’economia, non come accade in Occidente, che ha espunto lo scontro militare dal proprio orizzonte, a suo rischio e pericolo. E qui non ci riferiamo al solo jihad.

Nel caso di bottino risultante da un accordo e non da una vittoria sul campo, il Profeta reclamava per sé l’intero ammontare del bottino, e la tradizione del commento alla Sura numero Otto è costante nell’affermare che “tutto quello che la terra contiene è stato attribuito da Allah alla sua fazione”.

Ecco, le aree produttive lasciate sole dall’Occidente o di possibile destabilizzazione etnica, religiosa o politica sono Al Anfal, bottino, e gli islamici se lo giocano tra di loro, secondo le complesse regole coraniche riguardo alla guerra e alla distribuzione delle spoglie, molte delle quali, le regole, si trovano nella tradizione califfale comune sia a sciiti che a sunniti.

Gli attacchi sui pozzi sauditi con i droni nello scorso 14 settembre 2019, però, perché la guerra si fa con le tecniche aggiornate che Allah ti ha dato, hanno causato la sospensione temporanea dal mercato di ben 5,7 milioni di barili/giorno, circa la metà della produzione standard dei sauditi.

Dal punto di vista della vecchia teoria liberale della concorrenza, i sauditi sono stati enormemente favoriti, comunque, dalle sanzioni che, fin dall’inizio della rivoluzione sciita, nel 1979, hanno posto in crisi la produzione petrolifera iraniana.

Una distorsione grave del mercato petrolifero che l’Iran tenta di manomettere, con tecniche di guerra diretta ma, soprattutto, indiretta. E alle quali i sauditi rispondono colpo su colpo.

Nel 1995, l’anno in cui il presidente Usa Carter rafforza l’apparato sanzionistico, che era peraltro iniziato proprio nel 1979, dopo l’assalto degli studenti rivoluzionari all’ambasciata nordamericana a Teheran, il sistema delle sanzioni implicava, tra l’altro, la proibizione dell’appoggio della Import-Export Bank per le transazioni con l’Iran, il rifiuto della concessione di qualsiasi licenza commerciale per le società che infrangessero qualcuna o tutte le regole di restrizione commerciale verso l’Iran, la proibizione di ogni tipo di prestito superiore ai 10 milioni di dollari durante l’anno, ovviamente da parte delle istituzioni finanziarie Usa, la proibizione di diventare agente per i titoli bancari o di debito emessi dal governo Usa in Iran, una proibizione infine, su tutti i particolari beni o servizi inseriti nell’apposita lista del Dipartimento del Commercio Usa.

Nel 1997, il presidente Clinton rese meno severe le sanzioni verso il governo di Teheran, in relazione all’elezione di Khatami alla presidenza dell’Iran, una figura che passava per “riformista” nella ingenua stampa occidentale e, soprattutto, per avversario politico di Ahmadinedjad, futuro presidente iraniano.

Che, proprio lui, da studente universitario, ammonì i suoi colleghi che stavano per assalire la sede diplomatica americana dicendo: “Noi non dobbiamo mostrare solo odio verso l’America, ma anche verso l’Unione Sovietica, atea e materialista”.

Le sanzioni reimposte dagli Usa all’Iran, con una specifica scelta presidenziale di Trump, dopo l’uscita unilaterale degli Stati Uniti dal Jcpoa, Joint Comprehensive Plan of Action del 14 luglio 2015, ovvero l’accordo del P5+1 per la limitazione dell’arricchimento dell’uranio iraniano, riguardano circa l’80% delle attuali esportazioni di petrolio iraniane.

La Francia, dopo la scelta di Donald J.Trump, ha offerto 15 miliardi di dollari Usa, qualora l’Iran rientrasse nella piena formulazione del Jcpoa precedente all’uscita degli Usa dal Trattato, per favorire certamente la ripresa economica di Teheran, ma certamente per evitare il probabile blocco Usa.

Poi, fonti ufficiali iraniane hanno affermato, dal momento in cui il presidente Trump ha denunciato il trattato del P5+1, che il minimo di export petrolifero che l’Iran vuole mantenere è di 700mila barili/giorno, per poi arrivare a 1,5 milioni di barili/giorno, qualora l’Occidente voglia ancora rinegoziare tutto l’accordo del 14 luglio 2015.
Ecco l’origine della restrizione al consumo per i cittadini iraniani: quel petrolio serve per venderlo, non per distribuirlo, sussidiato, agli iraniani.
Si afferma che il risparmio derivante da questa nuova norma restrittiva per i consumi petroliferi andrà a favore dei poveri, ma ormai tutti gli iraniani stanno diventando poveri.

Nel frattempo, i sauditi hanno raggiunto i 12 milioni/giorno nel 2018, ben oltre i sei milioni che l’Iran esportava nella sua fase pre-rivoluzionaria.
Un “mercato del venditore” quello petrolifero, come si usava dire quando ancora si studiava l’economia, nelle nostre facoltà universitarie. Quindi, dopo decenni di imposizioni commerciali ed embargo occidentali, tutte le industrie petrolifere iraniane, ormai prive di ogni transfer tecnologico e di adeguati investimenti, sono precipitate nei livelli produttivi.

Fu proprio Teheran, con lo Shah, a portare il prezzo Opec a 11,58 dollari a barile, nel 1974, una cifra equivalente ai 53 dollari attuali. Si ricordi poi che, proprio nel 1973, immediatamente dopo la guerra dello Yom Kippur, lo Shah iraniano sostenne Israele, e quindi non partecipò all’embargo degli Stati arabi produttori di petrolio del cartello di Vienna.

Teheran, poi, divenne il quarto produttore di petrolio al mondo, dopo l’Urss, gli Usa e l’Arabia Saudita, con il livello giornaliero di 5,7 milioni/giorno, e questo accadeva nel 1977, ma fu un livello mai raggiunto in seguito.

Il prezzo dell’estrazione del barile è comunque sistematicamente sceso, fino al 30% odierno, dall’agosto 2014. Il costo di produzione del barile, secondo gli ultimi dati disponibili, vede al primo posto, per maggiore spesa unitaria di estrazione-lavorazione, la Gran Bretagna, poi viene il Brasile, terza è la Nigeria, mentre l’Iran e l’Arabia Saudita, guarda caso, si combattono il posto di petrolio più economico, almeno per quel che riguarda l’estrazione. Ma, in alcune analisi specializzate, il costo di estrazione degli iraniani sarebbe sensibilmente minore, addirittura, di quello sopportato oggi dai sauditi.

Ecco un importante elemento di guerra commerciale, e non solo, tra i due Paesi. Né Teheran né Riad hanno poi tasse sull’estrazione, diversamente dalla Federazione Russa, la più fiscale oggi tra i produttori, e ultimo viene il Venezuela che, a parte gli attuali disastri politici, ha un carico fiscale altissimo, per la sola estrazione. Ma torniamo al duello economico-strategico tra i sauditi e la Repubblica sciita iraniana.

Oggi, il prezzo del petrolio di Teheran è al di sotto di quello dei sauditi e degli altri competitori regionali. Il fatto poi che determina, oggi, le vere scelte di Teheran è poi la dichiarata Ipo di Saudi Aramco, una Offerta Pubblica di Acquisto della grande compagnia del petrolio saudita, un affare da 1,5 trilioni di dollari.

Il governo di Riyadh programma di vendere, inizialmente, una piccola quota di azioni sulla borsa della capitale saudita, prima di far passare di mano almeno il 5% della società. Il principe Mohammed bin Salman sperava, all’inizio della privatizzazione della compagnia saudita dei petroli, in un valore finale maggiore, ovvero di un pricing ufficiale di almeno 2 trilioni di dollari in totale, ma non gli è andata bene, finora.

I profitti annuali netti di Saudi Aramco sono di circa 100 miliardi; e la società saudita ha promesso, al momento dell’Offerta Pubblica di Acquisto, di pagare dividendi annuali per almeno 75 miliardi.

La società ha poi iniziato una serie di lavori per le infrastrutture e per le energie rinnovabili e, soprattutto, per sanare il debito pubblico saudita, in deficit dal 2014. E, infatti, malgrado la notevole liquidità di Saudi Aramco, la società ha acceso un prestito di 12 miliardi di dollari, raccolti tutti con titoli a lungo termine.

Ma Shell, per esempio, paga oggi il 6% annuo del suo valore di investimento come dividendo; e allora, se Saudi Aramco fosse davvero appetibile sul mercato, il valore totale della Ipo dovrebbe scendere fino a 125 trilioni di dollari.

I bond già emessi dalla società saudita, peraltro, valgono oggi solo il 4%, il che significa che, dato che il bond vale qui, tendenzialmente, meno delle previsioni sulla crescita del capitale azionario, allora il tasso di crescita petrolifero dei sauditi diviene minore di quello di altri settori concorrenti, e quindi gli investitori internazionali tendono inevitabilmente a vedere il petrolio come un settore in declino.

Se fossi in giro tra i corridoi del Mois, il Servizio iraniano, e tra gli uffici di intelligence delle Guardie della Rivoluzione sciita, sarei certo di ascoltare osservazioni, idee e proposte sulla possibilità di rendere difficile, magari anche un insuccesso, la privatizzazione di Saudi Aramco.
E nessuno sa poi a quanto ammontano le riserve petrolifere saudite, che sono segreto di Stato.

Poi, tutte le compagnie petrolifere, e questo però riguarda anche l’Iran, si trovano di fronte alle questioni innescate dal cambiamento climatico e dalla caduta mondiale della domanda di idrocarburi.

Allora, o si va alla rapida sostituzione con prodotti petroliferi molto meno inquinanti, ed è questo il motivo sottostante alla nuova autonomia strategica del Qatar; oppure gli investimenti petroliferi, ma proprio tutti, tendono a diventare stranded assets, “beni incagliati”.

Quindi, in questo caso, gli investitori mondiali non collocano i loro capitali in questo settore, ma si indirizzano verso aree finanziarie e produttive a maggiore rendimento.
Anche il Fondo Sovrano della Norvegia, il maggiore fondo sovrano al mondo, oggi, sta “decarbonizzando” tutti i suoi investimenti.
Un po’ per moda e politically correct energetico, un po’, molto, per una scelta razionale di investimento.

Come è accaduto con le sigarette e i prodotti del tabacco, ormai privi di qualsiasi interesse per i capitali internazionali, accadrà presto, quindi, anche agli idrocarburi?
E, allora, se questa fuga dei capitali dal petrolio accadrà sul serio, mentre gli Usa sono del tutto autosufficienti, la Saudi Aramco dovrà vendere frazionatamente altre quote di capitale della sua società petrolifera, anche solo per finanziare il suo deficit pubblico di bilancio e la trasformazione della propria economia interna in un sistema non-oil dependent.

In Iran, comunque, la lunga stagione dell’embargo ha reso, secondo le stesse parole del ministro del petrolio Zanganeh, molti pozzi di Teheran “dei musei operativi”.
Ma la questione strategica riguarda soprattutto gli Usa: nel 2018, per esempio, nel mezzo della espansione dello shale oil, gli Stati Uniti sono divenuti il maggior Paese produttore di petrolio al mondo, con un livello medio di estrazione per 15 milioni di barili/giorno.
Fin dalla Guerra del Kippur, poi, a seguito della mediazione personale e fiduciaria di Henry Kissinger, il petrolio arabo del primo vero grande boom dei prezzi postbellico è stato trattato solo in dollari Usa, con la creazione di canali riservati di investimento e riciclaggio, definiti in un accordo tra lo stesso Kissinger e Re Fahd dell’Arabia Saudita.

Tutto ciò, ovviamente, ha espanso grandemente la domanda mondiale di dollari statunitensi, il che ha permesso a Washington di gestire al meglio il suo colossale deficit commerciale pur mantenendo i suoi tassi molto bassi.

Anche oggi, come disse un governatore della Fed ai suoi colleghi dirigenti delle banche di emissione europee, “il dollaro è la nostra moneta e il vostro problema”.

Gli Stati Uniti, poi, controllano tutti i flussi petroliferi mondiali tramite il tracciamento di tutti i trasferimenti bancari. Inoltre, Washington mantiene ancora le sue basi militari in 13 Paesi del Golfo e del Medio Oriente. Ecco, siamo arrivati qui al punto essenziale che spiega la rivalità tra i sauditi e gli iraniani.

Fuori dal ciclo tecnologico e finanziario Usa, Teheran può giocare unicamente a quello che i politologi e gli economisti chiamano il ruolo del free rider.

Nella teoria politologica contemporanea, il free rider è colui che, all’interno di un gruppo, evita di dare il suo contributo al bene comune, perché ritiene che il gruppo possa funzionare ugualmente bene malgrado la sua astensione. Il free riding è appunto, letteralmente, il comportamento di chi sale sull’autobus senza pagare il biglietto.
In economia, il free riding è un processo di sottoproduzione o di sovra-consumo di un determinato bene.

E, oggi, siamo in un contesto petrolifero di tendenziale sottoproduzione, determinata dal cartello dei prezzi Opec e anche derivante dal sottoconsumo, che discende dalla diminuzione strutturale dei consumi petroliferi in occidente, vista la grande transizione verso le rinnovabili. E la crisi economica dei compratori di petrolio.

I beni che, solitamente, sono oggetto di free riding sono quelli che non hanno la possibilità di non escludere i non-pagatori. Il mercato del petrolio non può sanzionare i cattivi pagatori, ma non può nemmeno sanzionare, è questo il punto, chi cambia venditore. Casomai, la punizione è geopolitica e militare.

E il free rider problem sorge tipicamente, in modo ciclico, come sostiene Alfred O. Hirschman, nelle economie capitalistiche, proprio quando un produttore non considera i costi esterni: quello ecologico, certamente, nel mercato degli idrocarburi, ma soprattutto il costo politico o strategico connesso al bene acquistato.
Ecco perché sciiti e sunniti si fanno male tra di loro.

È questa, esattamente, la condizione attuale, anche in termini paretiani o di teoria dei giochi, del rapporto tra Arabia Saudita e Iran.
Nella fase, organizzata inizialmente dagli Usa, delle primavere arabe, l’Arabia Saudita, pur stabile alleato di Washington in tutto il Medio Oriente, ha fortemente contrastato le operazioni di “diffusione della democrazia” organizzate dagli Stati Uniti.

Certo, Riyadh ha aiutato i salafiti egiziani dopo la caduta di Hosni Mubarak, poi i sunniti di varia estrazione jihadista, o comunque fondamentalista, contro il regime di Bashar el Assad, poi Riyadh ha mantenuto quasi integralmente il regime degli Al Khalifa in Bahrein, dove la classe dirigente è sunnita e la grande maggioranza della popolazione sciita.

L’Iran, invece, con il suo progetto di Risveglio Islamico, ha sostenuto e finanziato alcuni filoni della rivolta “democratica” in Medio Oriente e nel Maghreb, soprattutto in Egitto e in Libia (Ansar al Sharia, per esempio, e altri gruppi avversari di Haftar).

Riyadh ritiene quindi che Teheran abbia espanso eccessivamente la propria area di influenza in tutto il mondo arabo, anche con il supporto iraniano ai gruppi palestinesi ai confini di Israele, soprattutto dopo la “guerra di agosto” del 2006 di Hezb’ollah, poi vi è stato l’impegno degli iraniani a favore degli Houthy yemeniti e anche delle masse sciite rivoltose in Bahrein; tutte queste operazioni sono state lette dagli Al-Saud come un tentativo illecito di egemonizzazione di tutto il mondo arabo, sciita e sunnita.
Per fare più petrolio senza estrarlo o subire l’embargo.

Per non parlare poi delle operazioni di continua destabilizzazione che l’Iran persegue, nelle aree centrali della stessa Arabia Saudita, zone che ospitano una vasta minoranza sciita, peraltro nelle provincie a maggiore estrazione petrolifera.

Se cade il Bahrein, quindi, Riyadh leggerà questa destabilizzazione come la fine della pace fredda tra il “Risveglio Islamico” diretto da Teheran e la sua area di influenza.
Non solo sciita.

Sono stati gli occidentali però, maldestri come al solito, a favorire artificialmente, con le sanzioni contro l’Iran, o da parte degli Usa, il free riding Teheran.

Ma gli Stati Uniti hanno almeno un reale interesse strategico nell’area, seguiti però dalla Ue, che comunque non conta, nemmeno dentro se stessa.

Tutto questo ha generato la possibilità, da parte di Teheran, di rendere utile una strategia di free riding strategico e di sovversione generalizzata nel Golfo Persico.

Se, però, i due concorrenti eviteranno di tentare di prendersi tutta la posta, ovvero l’intero e molto poco probabile controllo nel Grande Medio Oriente, avranno quindi tutto l’interesse a cercare comunque un modus operandi, che dipenderà soprattutto dalla stabilità del regime siriano.

Se Bashar el Assad riuscirà, anche con l’aiuto dei russi, che intanto si stanno prendendo una buona parte del petrolio iraqeno, a stabilizzare la Siria, l’innesco di uno scontro regionale tra Iran e Arabia Saudita sarà evitato, ed entrambi avranno tutto l’interesse a trattare una pace armata, ovvero, una chiara divisione delle aree di influenza.

Se questo non accadrà, avremo la long war nel Grande Medio Oriente, dalla fine incerta e che però produrrà due risultati certi: la maggiore dipendenza degli occidentali Eu dai prodotti petroliferi iraniani o sauditi, poi l’espulsione progressiva degli Usa dall’area, infine il continuo attacco a Israele, e, proprio nello scenario finale, la definitiva destabilizzazione jihadista del Maghreb.



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