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Nel vuoto riemerge la questione cattolica. Il merito di Zamagni secondo D’Ubaldo

Non è vero che dopo la Dc i cattolici siano stati assenti dalla scena pubblica. Hanno continuato a dare il loro contributo, alcuni in forma organizzata, altri a livello di testimonianza individuale. Sul pluralismo, croce e delizia del post-concilio, non si sono risparmiati minimamente. Qualcosa però fa dire che aleggia, dentro e fuori lo spazio della comunità ecclesiale, un certo motivo d’insoddisfazione. Nel tempo si è smarrito il senso di appartenenza, proprio per la mancanza di un grande partito di riferimento, in qualche modo di riferimento anche nella critica o nel dissenso. Oggi, non a caso, si torna sul discorso dell’impegno politico unitario – almeno come unità nella diversità – e quindi sulla controversa ma suggestiva ipotesi di un nuovo partito.

Il merito di Stefano Zamagni è di aver rilanciato la discussione sul punto, lasciando a tutti i soggetti interessati il compito di lavorare attorno al documento che reca in primis la sua firma. Sui contenuti piovono larghi consensi. Non si parla di “partito cattolico”, né di coperture della Gerarchia. Traspare semmai un desiderio tutto laico di partecipazione, come se dietro alcune stanche liturgie crescesse piuttosto l’urgenza di una risposta, in nome dei valori di solidarietà e giustizia sociale, al rischio di declino del Paese. Fede e politica, specie in Italia, non debbono confondersi.

Zamagni è coraggioso sul programma e timido sulle alleanze. La sua tesi consiste nell’anteporre alla politica negativa, per la quale tutto si riduce all’azione di contrasto dell’avversario di turno, una possibile e auspicabile politica positiva: viene prima il bene della nazione. Sturzo, in effetti, ha insegnato quanto sia appropriata e moderna la formula del “partito di programma”. Tuttavia De Gasperi è andato oltre, stabilendo un legame inscindibile con la questione delle alleanze. È noto che l’istituto della coalizione nasce come elemento strutturale di novità grazie al modello del centrismo degasperiano. Moro infine ha chiuso il cerchio – lo fece in antitesi a Scelba nel congresso di Napoli del 1962 – denunciando il carattere qualunquista che assume fatalmente un programma sganciato dalle alleanze. Dunque, non serve proclamare l’identità in una camera dell’eco.

Oggi il cattolicesimo democratico si trova a registrare un bisogno di ricostruzione della rappresentanza politica. Salvini ha impresso una svolta radicale all’iniziativa della destra attraverso l’omologazione delle varie componenti, compresa Forza Italia, alla linea nazional-radicale della Lega. Nonostante l’uscita dal governo, Salvini miete consensi e vince impetuosamente. C’è qualcosa, allora, che non funziona nella dialettica tra sovranisti e democratici, perché molti elettori anti-salviniani stentano evidentemente a riconoscersi nell’equilibrio assai precario della maggioranza di governo.

In sostanza, la prospettiva di un connubio tra Pd e M5S fa pensare a una mera ricomposizione della sinistra, con l’abbandono della sana collaborazione tra le diverse culture a vocazione riformista, tanto di centro quanto di sinistra. Lo spazio è vuoto – nemmeno Renzi lo colma – per quanti non si rassegnano a una semplificazione tra destra e sinistra. Ed è questo vuoto, in ultimo, che pone l’esigenza di una forte iniziativa politica, sull’onda di una riemergente questione cattolica, per dare nuova forma e nuova sostanza alla competizione con il blocco sempre più egemonizzato dalla Lega.


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