“Voglio dire alla Casa Bianca che nei giorni in cui sanziona le vendite di petrolio iraniano, i lavoratori di questo Paese e i suoi ingegneri sono stati in grado di scoprire 53 miliardi di barili di greggio”. Parola di Hassan Rouhani. Il presidente iraniano ha parlato pubblicamente alla folla, dal palco, durante una visita a Yazd, perla Unesco alle porte del deserto di Kavir (Iran centrale). Rouhani si riferisce a un maxi giacimento nel Khuzestan, regione ricca di risorse che chiude il Golfo Persico al confine col Kuwait. Annuncia a sorpresa l’aumento delle sue capacità energetiche e dunque economiche.
Della scoperta sensazionale si hanno notizie relative. Rimbalzano sui media locali, che però non brillano particolarmente per limpidezza informativa. Sono asset governativi, servono a diffondere la propaganda, moltiplicatore di forza narrativa utilissimi in questa fase di resilienza estrema. L’Iran è alle strette, le sanzioni reintrodotte dagli Stati Uniti dopo l’uscita dall’accordo sul nucleare ne flettono l’economia. Rendono per ora quei nuovi miliardi di metri cubi di greggio un pozzo inutilizzabile. Il Jcpoa (acronimo tecnico de l’accordo) stenta a sopravvivere soprattutto perché i cofirmatari europei non hanno un piano su come tenerlo in piedi e su come svicolare la morsa americana.
Il giacimento avrebbe la potenzialità stimata di aumentare di circa un terzo le riserve del Paese. Oltre duemila metri quadrati di superficie, per un reservoir che porterebbe altra forza ai 157 miliardi di barili. Teheran ha in mano la quarta più importante riserva petrolifera del mondo (la seconda gasifera). Ma non può utilizzarla se non in termini minimi. Con le sanzioni le produzioni si sono ridotte a 200mila barili al giorno, a fronte di un livello di sussistenza che si aggira attorno al milione.
Il racconto spinto sul petrolio diventa importante anche per giustificare davanti ai cittadini iraniani una politica avventurista nella regione mediorientale che privilegia impegni e coinvolgimenti in delicate faccende di politica estera che impiegano risorse che potrebbero servire per migliorare le condizioni di vita all’interno del paese. È in crisi di consenso modello di espansione regionale pensato dall’Iran attraverso la realizzazione di un network di milizie controllate, infiltrate in scalate ostili all’interno di vari paesi della regione— Iraq, Siria, Libano, Yemen, ma anche gruppi militanti minori in Afghanistan, Arabia Saudita, Bahrein, Kuwait.
In Iraq e Libano le proteste riguardano anche, o sopratutto, questa diffusione. Per le strade di Baghdad si urla “fuori l’Iran”, ossia si protesta contro un governo e un sistema politico che è diventato vassallo dei piani espansionistici dei Pasdaran. Dai tetti si spara contro i manifestanti, e secondo alcune informazioni di stampa sono gli stessi partiti/milizia controllati dall’Iran ad aver mandato i cecchini contro le proteste. Il generale d’élite dei Pasdaran, Qassem Souleimani, era nella capitale irachena per gestire col pugno duro le proteste.
Il ruolo di Souleimani in Medio Oriente va molto oltre quello di un comandante militare, bypassa la struttura ordinaria e riferisce direttamente alla Guida Suprema, Ali Khamenei. Lo spiega anche un report recente dell’International Institute for Strategic Studies, secondo cui Teheran sta vincendo la gara di influenza regionale contro i propri rivali (Israele e Arabia Saudita). Sebbene le proteste stiano mettendo in difficoltà il modello; in questi giorni grandi cartelli con la faccia di Khamenei e Souleimani vengono bruciati nelle strade dell’Iraq. L’IISS, think tank di riferimento globale con sede a Londra, parla con approfondimento inedito (217 pagine di report) proprio della diffusione tramite attori non statali che ha permesso all’Iran di aver presa su diversi paesi. Anche attraverso la narrazione.
Sia di carattere ideologico: le milizie sono sciite, settarie, e anti-occidentali – aspetto che non guasta perché i nemici sunniti o ebrei vengono descritti come alleati fedeli del Grande Satana americano. Sia sul piano di forze: qui rientra la spinta sulle capacità economiche, che passano anche dal petrolio, e militari. L’Iran si configura con i propri proxy come un effettivo riferimento di potenza. E le riserve energetiche sono sia vettore di carattere retorico, ma anche strumento concreto con cui far arrivare aiuti economici ai satelliti in giro per la regione o sviluppare programmi di armamenti.
La scoperta del giacimento nel Khuzestan significa che l’Iran ha teoricamente la forza per continuare nel suo piano. Ma significa anche che il Paese ha le potenzialità per permettere ai propri cittadini una prosperità futura, che al momento è limitata dalle sanzioni che sono essenzialmente legate alle ambizioni egemoniche iraniane. Alcuni di quegli attori non statali, come il libanese Hezbollah, sono inquadrati dall’Occidente come entità terroristica.
Secondo il report dell’IISS, è improbabile che l’Iran cambierà rotta finché Donald Trump sarà alla Casa Bianca – una condizione che porta Teheran dalla parte degli oppositori politici del presidente in corsa per la rielezione, nella speranza che il suo successore possa avere un approccio più morbido, sebbene l’americano ha più volte spinto per un approccio diretto con Rouhani anche in mezzo alle fasi più delicate degli ultimi mesi di tensioni.
È invece probabile che l’Iran continuerà con le sue politiche, anche con le violazioni controllate al Jcpoa registrate anche pochi giorni fa. Sebbene le sanzioni abbiano reso l’economia iraniana terribile – e in questo la scoperta petrolifera diventa un palliativo che Rouhani offre alla folla – Teheran ha più forza di resilienza di quanto si possa pensare anche, o sopratutto, grazie alla diffusione del network di influenza creata attraverso Souleimani e i suoi uomini. Una penetrazione che permette all’Iran di aver diverse superfici e assetti di attacco e gestione. Finché dura, perché i cittadini iracheni dimostrano che qualcosa può cambiare, nonostante gli zuccherini petroliferi.