Skip to main content

Spagna al voto. La ricerca della maggioranza, lo stallo politico e la crescita economica

La Spagna si avvicina alla sua quarta votazione in quattro anni. Re Filippo ha convocato le elezioni per il 10 novembre certificando il fallimento del premier socialista Pedro Sanchez, che dopo il voto di aprile ha tentato di combattere per cinque mesi l’instabilità politica senza trovare una quadra con le altre forze elette.

Difficile, se non impossibile, per Sanchez trovare un accordo con i vicini alla sua sinistra. Forte del 35 per cento dei seggi, cercare l’ala radicale composta da Podemos e i gruppi indipendentisti catalani poteva sembrare la via più facile per arrivare alla maggioranza, ma significava mettere di nuovo d’accordo le stesse forze politiche che avevano fatto cadere il precedente governo.  A settembre le trattative con Pablo Iglesias di Podemos sono franate nel baratro, e a quel punto l’unica soluzione era il voto.

Anche perché non era potabile per il premier e per il suo elettorato una coalizione allargata ai conservatori. I Popolari e Ciudadanos hanno avuto uno spostamento a destra, verso posizioni nazionaliste, dovuto anche alla necessità di non perdere terreno elettorale rispetto al neo-nato Vox, che da aprile porta le sue istanze ultra-conservatrici e nazional-populiste in parlamento. Lo slittamento del blocco conservatore, anche per antitesi ai moti catalani, ha impedito a Sanchez la soluzione a là tedesca.

Un report dell’Ispi spiega che sostanzialmente dopo le prossime elezioni la situazione generale potrebbe non cambiare. Un sondaggio di Politico Europe dimostra che le previsioni danno percentuali piuttosto simili alle attuali, e dunque tutto potrebbe ingolfarsi di nuovo. “I sei partiti principali del parlamento spagnolo sono infatti divisi in due blocchi, centrodestra e centrosinistra, con percentuali di preferenze simili: a destra il Partito popolare, Ciudadanos e Vox sono dati complessivamente al 44%; a sinistra Psoe, Podemos e il nuovo partito Más País avrebbero circa il 42% dei voti” (Ispi).

Non c’è una maggioranza su un lato dello schieramento, sembra impossibile trovarne una trasversale, difficile addirittura compattare i due blocchi. Secondo le previsioni dell’Ispi, quanto sta accadendo a Barcellona potrebbe avere riflessi sul futuro del governo, perché è dai partiti regionalisti che potrebbe arrivare un aiuto per formare una maggioranza in parlamento. Il peso della condanna che la Corte costituzionale ha deciso a inizio ottobre per nove dei leader indipendentista, tra cui Oriol Junqueras, presidente della Sinistra repubblicana di Catalogna, il principale partito della regione, si fa sentire e aumenta le tensioni con Madrid.

La vicenda diventa campo di scontro strumentale tra candidati alle politiche nazionali. Santiago Abascal di Vox ha accusato il premier Sanchez durante il primo dibattito televisivo di permettere “un colpo di stato permanente” in Catalogna. Il primo ministro, tenendo comunque un atteggiamento duro verso le forzature catalane, si è difeso sostenendo che il suo governo è stato in grado di mantenere buone le relazioni tra Madrid e Barcellona. Sono posizioni che secondo il primo lato tendono a difendere la linea intransigente e nazionalista, dall’altro il dialogo e avvicinarsi alle posizioni indipendentiste più moderate. Entrambe cercano consenso in vista del voto e delle fasi successive di costruzione del governo.

Sfide interne dall’elevata complessità che si scontrano con una proiezione internazionale che invece sta crescendo. La Spagna s’è allineata alla posizioni francesi su molti temi europei, Madrid ha sostituito Roma nella ricerca di Parigi di una partnership nel Mediterraneo (un processo di cooperazione che era stato avviato dal precedente governo italiano e che si è interrotto bruscamente con l’arrivo dell’esecutivo gialloverde). E mentre è cresciuto il peso spagnolo in Europa – fino a ottenere per l’ex ministro degli Esteri, Josep Borrel, il ruolo di Alto Rappresentante dell’UE per la politica estera e di sicurezza – anche il Pil cresce. Più 2,2 per cento a fronte dell’1,5 di media Ue. E il debito pubblico, ancora alto, segue dal 2015 una discesa, sebbene al rallentatore.

 

×

Iscriviti alla newsletter