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Trump, l’impeachment e la lezione italiana. Parla David Unger

Un Trump tira l’altro. La scommessa dei Democratici americani sul procedimento di impeachment, spiega David Unger, storica firma del New York Times e professore di politica estera Usa alla John Hopkins, rischia di ottenere l’effetto opposto a quello desiderato. I numeri per arrivare fino in fondo non ci sono, e l’impatto di lungo periodo sull’elettorato può essere controproducente, “gli elettori troveranno uno più radicale di lui”.

Professore, questa volta l’impeachment è più vicino?

Partiamo da un presupposto. Per l’impeachment è necessario che sia accertata una precisa fattispecie di reati, come l’abuso di ufficio, che qui non sussiste. Siamo nell’ambito della politica estera.

Continui.

Trump ha chiesto un cambio radicale della politica estera americana in Ucraina trovando il pieno disaccordo del circuito diplomatico. Ha insistito e alla fine ha ottenuto quel che voleva. È un ottimo argomento per contestarlo alle prossime elezioni, ma non è un legittimo pretesto per un procedimento di impeachment. Per interrompere anzitempo la presidenza Trump serve qualcosa in più.

Eppure alla Camera l’inchiesta prosegue…

Gerald Ford disse che “è impeachment qualsiasi cosa consideri tale una maggioranza della Camera in un dato momento storico”. In questo momento i democratici sono convinti ci siano gli estremi. Io, da docente della politica estera americana, non sono d’accordo. Utilizzare la politica estera per ottenere vantaggi personali o per influenzare le elezioni è una strategia standard per un presidente, ci sono decine di esempi. Può essere condivisibile o meno, ma bisogna dimostrare che Trump abbia varcato una nuova linea rossa.

La linea rossa ha un nome e cognome: Gordon Sonland.

Sicuramente la sua audizione è stata una sorpresa. Il presidente era convinto di avere dalla sua un testimone amichevole e invece è andata diversamente. Sonland ha confessato di aver agito su ordine di Trump e ha confermato il quid pro quo dietro la sospensione delle forniture militari a Kiev. La questione di fondo però non cambia: per il momento mancano le prove per mettere Trump sotto impeachment.

Ma i numeri per andare avanti ci sono?

La Costituzione prescrive che una maggioranza semplice della Camera dei rappresentanti può avviare un procedimento di impeachment. È successo di recente, con Bill Clinton. Perché si arrivi a una messa in stato d’accusa servono i 2/3 del Senato, e ad oggi sembra impossibile raggiungerli.

I repubblicani faranno quadrato intorno al presidente?

Tutto va in questa direzione. Servono 67 voti al Senato, ovvero più di venti repubblicani. Ad oggi se ne contano due o tre pronti a votare contro Trump, come Mitt Romney o Lisa Murkowski. Certo, non è mai detta l’ultima parola. Anche Nixon era convinto di avere i repubblicani dalla sua e invece se li è trovati contro. La mia impressione è che i senatori del partito realizzeranno cosa è nel loro interesse politico non appena tornati nei rispettivi distretti.

I democratici andranno fino in fondo?

Nancy Pelosi è molto prudente, non mi stupisce. Finora la speaker ha fatto poco per accelerare il procedimento. Sa bene che avviare ora l’impeachment può essere rischioso per i democratici, buona parte degli elettori non li seguirebbe. D’altra parte sa che indugiare troppo significa perdere gli attivisti. Per vincere le elezioni il prossimo anno ha bisogno di entrambi. Il suo caucus mi sembra meno lucido.

Perché?

Ha una visione distorta dell’elettorato. I democratici sono sicuri che Trump sia il problema ma non è così. Le elezioni presidenziali del 2016 hanno fotografato un diffuso disincanto degli elettori rispetto ai partiti politici e la ricerca di soluzioni radicali. Se credono che l’impeachment contro Trump possa convincerli del contrario sono fuori strada. Messo da parte Trump, troveranno qualcuno più forte e più radicale di lui. L’Italia insegna.

Che c’entra l’Italia?

La maggioranza Pd-Cinque Stelle in fondo è nata anche per arginare Matteo Salvini. Il risultato? È cambiato il governo e la linea politica ma non quello che la gente pensa, sondaggi alla mano.

Professore, torniamo al caso Ucraina. Biden ne esce indebolito?

Biden si è danneggiato con le sue stesse mani, i giochetti di Trump con Zelensky c’entrano poco. Non facilita la sua corsa il fatto di essere in politica dal 1976, un po’ come la Clinton. L’establishment democratico pensava che sarebbe stato il “proiettile magico” con cui fermare persone come Bernie Sanders ma finora non ha funzionato. Rimane comunque un candidato forte e non lo darei per vinto con tanta facilità.

Chi fra i dem ha più chance di tenere testa a Trump?

Elizabeth Warren, senza dubbio. I suoi attacchi contro la sanità, la Silicon Valley e Wall Street saranno utilizzati contro di lei. Le faranno contro una campagna feroce. Funzionerà? Non ne sarei sicuro. Gli elettori democratici non hanno votato Clinton nel 2016 perché la vedevano come un candidato dell’establishment. Warren impersona quella richiesta di cambiamento. Non va sottovalutata.

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