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Gli Usa non lasciano la Siria (per ora) ma chiamano a raccolta gli alleati

Negli ultimi due giorni gli americani hanno mandato un messaggio ad alleati e rivali sul fronte Siria, e forse la coincidenza con la visita del presidente turco a Washington non è poi così casuale.

Il capo del Pentagono, Mark Esper, ha detto che almeno 600 militari resteranno nel Paese. Praticamente quasi l’intero contingente che Donald Trump ha annunciato per almeno tre volte di aver ritirato dal Paese. Esper parlava da Seul, cuore (con il Giappone) di un’alleanza nel Pacifico che la presidenza Trump ha più volte messo in discussione. E potrebbe essere sempre non casuale se ha precisato che quel numero potrebbe essere rivisto e rimodulato se qualcuno degli alleati europei accetterà di accrescere il proprio impegno in Siria.

Non è la prima volta che Washington invia certi input al Vecchio continente, ma diversi Paesi come Germania, Francia e Italia hanno sempre cercato di glissare. Oggi nella capitale statunitense ci sarà la riunione dei ministri degli Esteri della Coalizione anti-Isis, a cui parteciperà anche il ministro degli Esteri italiano Luigi Di Maio. È possibile, secondo fonti diplomatiche, che qualche altro segnale sulla Siria venga inviato dagli americani agli alleati.

Ieri ha parlato anche il capo delle forze speciali che operano sul campo sotto Inherent Resolve, la missione Usa che guida nella pratica (e nella politica) la coalizione internazionale che ha disarticolato lo Stato islamico. Il generale Eric Hill ha spiegato che quel contingente a cui si riferiva Esper avrà una dimensione e una capacità militare di primo livello. Sarà supportato infatti da assetti a terra, come i blindati Bradley, e aerei: gli elicotteri Apache. Mai fino ad ora questi mezzi erano stati piazzati nelle basi siriane (dunque si volesse sottilizzare, gli Usa dalla Siria si sono tutt’altro che ritirati, ma rafforzati). Ed è probabile, come ha già scritto Newsweek a fine ottobre, che ci saranno anche trenta carri Abrams.

Hill ha anche detto che questo dispiegamento si posizionerà a est, in una base discreta tra Raqqa, Hasaka e Deir Ezzor. Là interessi e nemici degli Stati Uniti sono molteplici. Ci sono per esempio le spurie siriane dell’Isis, sconfitta nella dimensione statuale ma ancora in grado di compiere attacchi; relegata in alcune zone in forma clandestina, l’organizzazione lavora come una specie di criminalità jihadista sempre pronta a tornare. Ma ci sono anche russi, siriani e iraniani. La fascia orientale della Siria è inoltre l’unica che contiene – sebbene in forma minima – riserve energetiche. C’è il petrolio, e si dice che i generali abbiano convinto Trump a restare dicendo che l’oro nero era un interesse fondamentale, ossia parlando una lingua da businessman più che da statista.

In realtà gli Stati Uniti, uno dei principali produttori di greggio al mondo, non hanno interessi diretti su quella materia prima, ma la ragione della presenza è duplice e ben più sottile. Restare in quell’area permette profondità tattico-strategica. È una doppia difesa dei curdi siriani, che adesso controllano l’aerea, e un doppio interesse. Da una parte quella presenza tattica americana garantisce che il petrolio non scivoli nelle mani dei lealisti, proteggendo i curdi e creandogli una leva politica agli Usa davanti ai russi e al regime. Nel piano americano i lealisti dovrebbero convincersi a negoziare una stabilità con i curdi. Tutto tenendo fuori gli iraniani: 600 uomini delle forze speciali americane ben armati sono un deterrente sufficiente per le milizie sciite che operano in Siria per conto di Teheran.

Contemporaneamente, i militari americani sul posto continueranno il lavoro, con i curdi, contro l’Isis. Lavoro in partnership che dopo l’abbandono al nord nelle mani di Ankara sarebbe diventato più complesso senza la contropartita petrolifera. Trump, qualche settimana fa su Twitter, ha suggerito ai curdi siriani di spostarsi verso sudest, liberare il campo alla Turchia (con cui adesso, dopo la visita di Recep Tayyip Erdogan, Trump sembra andare molto d’accordo) e consolidarsi lungo la fascia orientale profonda. Un territorio arabo che i curdi controllano dopo averlo strappato al sedicente califfato. Su cui adesso, come dice Trump, “abbiamo messo al sicuro il petrolio”. Con quasi mille soldati, carri armati, blindati e Apache.

(Foto: Wikipedia)

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