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Wong e non solo. Perché l’Italia deve aprire gli occhi sulla Cina. Parola di Laura Harth

Domenica 24 novembre 2019 entrerà nella storia come giornata nera per il regime del Partito comunista cinese, il cui volto totalitario è stato da un lato sconfitto dalla storica partecipazione e vittoria democratica a Hong Kong nelle elezioni dei Consigli distrettuali e dall’altro ulteriormente svelato grazie alla seconda fuga massiccia di documenti interni classificati sulle sue politiche di repressione di massa nella Regione Autonoma Uigura dello Xinjiang, pubblicati dal consorzio giornalistico International Consortium of Investigative Journalists. Notizie che oggi occupano le prime pagine dei giornali in tutto il mondo. E per chi come il Partito Radicale Non violento Transnazionale e Transpartito lavora da decenni sulla promozione dello stato di diritto e i diritti umani nella Repubblica popolare cinese, accanto alle milioni di persone – minoranze e maggioranza uguale – oppresse dal regime di Pechino, forse è proprio questo ultimo punto che accende un barlume di speranza.

Certo, la strada è in forte salita. Rispetto a quando arrivarono le prime denunce sulle repressioni in Tibet con la fuga del Dalai Lama nel lontano 1959, o sul massacro degli studenti a Piazza Tiananmen nel 1989, la Cina oggi è diventata un potere mondiale con ambizioni espansionistiche non solo in termini economici, ma – soprattutto – in termini politici e culturali. Infatti, grazie alla sua ascesa economica, veicolata dall’entrata nel sistema WTO nel 2001 nonostante il fatto che le sette condizioni originali sui diritti umani del Presidente Clinton non furono mai rispettate, la Repubblica Popolare Cinese oggi non nasconde più il suo intento di “cinesizzare” le regole internazionali, minando alle fondamenta del sistema multilaterale stabilite nel dopoguerra. Da quando è salito al potere il presidente Xi Jinping, le dichiarazioni sui “diritti umani con caratteristiche cinesi” o “lo stato di diritto con caratteristiche socialisti” si sono rapidamente susseguite nei vari forum internazionali. Nel frattempo sono del tutto assenti le denunce ufficiali sull’incarcerazione di massa della popolazione musulmana non solo nei forum Onu – dove abilmente spariscono denunce dalle ong dai documenti ufficiali redatti dall’Ufficio dell’Alto commissario per i diritti umani – , ma anche in tante democrazie consolidate come l’Italia.

Per la seconda volta in tre anni, il Partito radicale ha cercato di portare la testimonianza diretta di un oppositore democratico del regime di Pechino dentro il Parlamento italiano. Per la seconda volta, non sarà consentito al testimone di essere fisicamente presente. Tre anni fa, il bersaglio fu Dolkun Isa, presidente del Congresso mondiale uiguro, che su invito del senatore Luigi Compagna venne a riferire sull’inizio della campagna dei “campi di rieducazione” nello Xinjiang.

Risultato: non solo quattro ore di fermo dalla Digos, ma anche l’espressa istruzione dall’allora Ufficio di presidenza del Senato di non farlo entrare in nessun modo all’interno degli edifici. Calpestato non solo il suo diritto, ma anche quello di un rappresentante del popolo italiano. Reazioni: zero. Neanche una riga su un quotidiano online, ovviamente con l’eccezione di Radio radicale che documentò tutto.

Martedì scorso invece è arrivato il diniego dell’Alta corte di Hong Kong dell’autorizzazione a viaggiare a Joshua Wong, uno dei volti più noti delle proteste per la democrazia e Segretario generale dell’ong Demosisto. Da mesi, il Partito radicale, insieme al senatore Adolfo Urso e l’ambasciatore Giulio Terzi di Sant’Agata, lo aveva invitato per venire a testimoniare dinanzi i membri del Parlamento italiano su quanto sta avvenendo a Hong Kong. Questa volta, alla fuga della notizia l’attenzione mediatica è stata notevolmente diversa. Non così diversa invece la reazione iniziale dall’Ambasciata cinese a Roma, che ha subito intimato le istituzioni italiane a non fornire nessun sostegno all’attivista, invitando il ministro degli Esteri a mantenere la sua linea di “non-interferenza sulle questioni interni cinesi”.

A maggior ragione è significativa la conferma della partecipazione di esponenti di quasi tutti i gruppi politici alla conferenza che si terrà giovedì 28 novembre alle ore 13.30 nella Sala Caduti di Nassirya del Senato della Repubblica con la partecipazione via Skype di Wong, cogliendo così il suo appello lanciato mercoledì scorso ai microfoni di Radio Radicale di poter testimoniare dinanzi ai parlamentari italiani e dolendosi della posizione espressa a Shanghai del ministro Luigi Di Maio. Il segnale che i parlamentari presenti manderanno sarà non solo di sostegno alla legittima richiesta di democrazia del popolo di Hong Kong, espressa in maniera così forte questa domenica, ma sarà anche la rivendicazione di una posizione storica della Repubblica italiana a favore dello stato di diritto, la democrazia e i diritti umani nel mondo, nonostante le pressioni continue della Repubblica popolare cinese.

E non è un sostegno scontato, come dimostrano i recenti casi di politici in altri Paesi occidentali che hanno sentito il furore di Pechino per le opinioni espresse sui diritti in Cina. Basta pensare alle intimidazioni al ministro svedese per la Cultura e la democrazia Amanda Lind a non partecipare ad una premiazione letteraria in onore di Gui Minhai a Stoccolma – a pena di vietare l’accesso di qualsiasi futuro Ministro della Cultura in Cina – dall’ambasciatore cinese in loco Gui Congyou. Minhai è un cittadino svedese nato in Cina che lavorava come editore di libri a Hong Kong ed è attualmente detenuto in Cina. O ai due parlamentari australiani Andrew Hastie e James Paterson ai quali ugualmente è stato negato il visto per partecipare ad un viaggio di studio a Pechino per la “loro franchezza nei confronti del partito comunista cinese”. Peraltro, la censura non colpisce soltanto i politici, come ha dimostrato in modo eclatante il caso Nba negli Stati Uniti.

E torniamo in Italia: ancora questo fine settimana ha fatto – giustamente – scalpore la lunga visita del fondatore del Movimento 5 Stelle all’ambasciata cinese a Roma. Certo, data la difesa a spada tratta – e con occhi evidentemente bendati vista l’uscita delle pagine interne del governo cinese sul New York Times – delle politiche cinesi nello Xinjiang da Beppe Grillo sul suo blog e su Twitter, occorre innanzitutto chiedergli per “quale motivo economico si è lasciato ricattare”, termini con i quali lui stesso denunciò sul suo stesso blog il silenzio dei politici italiani rispetto alla questione tibetana nel non-così lontano 2012. Sarebbe tuttavia pericoloso pensare che le intrusioni cinesi nel nostro Paese abbiano inizio con Grillo e Di Maio e che riguardino solo la difesa dei diritti umani nel paese. Come scrivevamo all’inizio: il piano di Pechino ha ambizioni di dominio politico mondiale (e persino spaziale) e il regime di Pechino è paziente.

Come ha denunciato questa settimana l’ex Direttore generale dell’Australian Security Intelligence Organisation, Duncan Lewis, “le autorità cinesi cercano posizioni di vantaggio inserendosi nei cerchi politici, sociali, imprenditoriali e mediatici di un paese. Lo spionaggio e l’interferenza straniera sono insidiosi; i loro effetti possono rimanere invisibili per decenni, e quando li noti è già troppo tardi. Un giorno ti svegli e ti rendi conto che le decisioni prese nel nostro Paese non sono nell’interesse del nostro Paese.”

In Australia le indagini sulle interferenze cinesi in tutti i strati della società è sicuramente più avanti, ma l’influenza cinese in Europa non solo non è più un mistero, ma è una questione di crescente importanza con cui governi del continente devono, volenti o nolenti, fare i conti quasi quotidianamente. Una faglia aperta sul fronte degli attriti sino-americani in terra europea è, notoriamente, quella aperta in Germania.

È forse proprio per tentare di rimarginare la ferita teutonica, che il Parlamento tedesco la scorsa settimana, merito di una linea dura in ambito Cdu, è stato teatro di un dibattito acceso sul caso Huawei: tema dello scontro, chiudere la porta del mercato 5G teutonico al colosso cinese. Con la Cancelliera messa alle strette, resistendo su una posizione ben meno bellicosa. La Germania e la Cina: una relazione che preoccupa ambienti atlantici da tempo. Germania, terra di poderosi apparati industriali leader mondiali in molti settori produttivi, custodi di know-how prezioso, anche per Pechino. Germania, terra di tecnologia e ricerca di base, terra che ospita eccellenze scientifiche anche di “importazione”: come l’italiano Andrea Santangelo, professore di Astronomia e Astrofisica all’Università di Tubinga. “L’astrofisico che spiega il cielo ai cinesi”, titolava La Repubblica in un’intervista al professore a marzo dell’anno scorso, che si è prodigato in questi anni per far evolvere la comunità astrofisica e spaziale cinese nel campo di progetti sulle alte energie. Settore, come altri (tutti ad alto contenuto “strategico”, specie nel campo satellitare), in cui la fame cinese di know-how europeo ed americano è forte, e in cui Pechino dichiaratamente afferma di voler puntare a diventare potenza mondiale.

È pleonastico sottolineare come le discipline scientifiche costituiscano la base di un sistema nazionale di produzione ed evoluzione tecnologica all’avanguardia, autonomo e auto-sostenibile nel tempo. Cosa che la Cina, attualmente non è ancora divenuta, ma che cerca di divenire anche e soprattutto attraverso una politica di partnership scientifiche sempre più intense con i Paesi europei e con molte agenzie di ricerca del continente. Quello stesso continente che rappresenta la più preoccupante faglia strategica e sistemica di frattura con Washington. Proprio in questi giorni, peraltro, il ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca Lorenzo Fioramonti è in visita ufficiale in Cina. È legittimo dedurre che la sua attività in questi giorni riguardi proprio i temi della cooperazione scientifica e tecnologica con l’Italia, e speriamo che non torni con qualche sorpresa, non propriamente improntata alla cautela nella cooperazione scientifica con Pechino. E non solo per il futuro dei nostri rapporti con la Nasa.

La consapevolezza crescente che vediamo in questi giorni sulla stampa e tra i rappresentanti italiani è essenziale per l’avvio di un dibattito trasversale e approfondito sull’influenza cinese in tutti i campi nel nostro Paese, non per escluderne qualsiasi cooperazione, ma per poterne stabilire i parametri riportare equilibri nei rapporti. La conoscenza di quanto accade in Cina attraverso le testimonianze di persone come Wong e di quanto siano le pressioni interne è fondamentale per istruire tale dibattito.

È altrettanto importante però che l’Italia torni ad affermarsi come Paese fermamente legato ai principi dello stato di diritto democratico, consapevole del fatto che non solo sarebbe moralmente deplorevole cercare di trarre vantaggio dello sfruttamento violento di essere umani altrove, ma che è semplicemente impossibile farlo. Il barometro dei diritti umani non è soltanto un vincolo morale, ma anche uno strumento semplice per poter valutare le possibilità di avere una concorrenza commerciale leale e equa con benefici reciproci. L’ipotesi di importazione di tecnologie di sorveglianza di massa non è soltanto uno schiaffo alle minoranze etniche all’interno della Cina, ma è una questione che merita una dibattito pubblico e informato, come avvenuto a San Francisco dove è stato deciso che non verranno mai installate telecamere con tecnologia di riconoscimento facciale. La reciprocità dei diritti che l’Occidente concede a giornalisti, diplomatici, imprenditori e studenti cinesi dovrebbe essere un sine qua non nei rapporti con la Cina. Se i social occidentali come Twitter e Facebook sono chiusi agli utenti cinesi, dobbiamo concedere l’accesso massiccio ai dati dei nostri giovani attraverso app cinesi come TikTok ed è in qualche modo possibile sottoscrivere accordi sulla protezione dei dati con aziende legalmente tenute a fornire a Pechino tutte le informazioni detenute su richiesta dello Stato-partito?

Sono solo alcune delle linee programmatiche su cui da tempo si muove il Congresso americano in modo trasversale. Speriamo che quanto prima ciò accada anche in Italia, consapevoli dal fatto che si tratta – come intitolava ieri il Global Times – anche di una guerra di informazione. Non facciamoci rimettere il bavaglio e traiamo forza dall’indimenticabile prova di democrazia che il popolo di Hong Kong ha dato questa fine settimana.

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