Per chi non la conoscesse, PricewaterhouseCoopers (PwC) è una multinazionale di consulenza strategica che opera in tutto il mondo, fattura oltre 40 miliardi di dollari e occupa oltre 250 mila persone. Realizzare stime affidabili sull’andamento nel tempo delle varie economie mondiali, per PwC, non è un divertimento: è cruciale per capire come orientarsi sui mercati.
Ebbene, PwC ha da poco pubblicato l’aggiornamento delle previsioni sull’economia mondiale nel 2050: 30 anni, dietro l’angolo. Quello che emerge è un quadro drammatico nei cambiamenti di peso economico. Nella lista dei maggiori paesi per PIL (in parità di poteri d’acquisto, ossia al netto della volatilità dei tassi di cambio fra valute), compare al primo posto la Cina, con quasi 60 trilioni di dollari. Seguono India con 44 ed USA con 34. Poi alla spicciolata, nettamente staccati, vengono Indonesia (10), Brasile e Russia (poco più di 7), etc.
Per trovare un paese europeo occorre arrivare al nono posto, occupato dalla Germania. Poi viene la Francia al 12°; per arrivare al successivo occorre arrivare al 21° posto, dove troviamo ben poco orgogliosamente l’Italia (dietro a Nigeria, Egitto, Pakistan, Iran, Corea, Filippine, Vietnam).
Naturalmente si possono muovere tutta una serie di ragionevoli rilievi a queste stime. Calcolare le parità dei poteri d’acquisto è un processo complesso, che rischia di deragliare per motivazioni varie, soprattutto su un orizzonte temporale di lungo periodo. Il PIL, inoltre, non è certo una misura affidabile del benessere di una popolazione; oltretutto, sarebbe utile calcolarlo non tanto in termini assoluti, ma a livello pro-capite. Non solo, ma gli eventi economici sono legati indissolubilmente anche a fattori politici, sociali, alcuni dei quali imponderabili; e che potrebbero modificare le traiettorie evolutive dei singoli paesi.
Nonostante tutto, siamo pronti a scommettere (ci rivediamo fra 30 anni) che nel 2050 le reali condizioni dell’economia mondiale non si discosteranno molto da questa previsione. Con un dominio praticamente incontrastato di Cina e India, che oltretutto già oggi ragionano in maniera sinergica.
Ma al di là di questa evidenza, un primo elemento da sottolineare è che solo gli aggregati di dimensione continentale avranno ancora un ruolo guida nell’economia mondiale. A parte Indonesia (che tuttavia ha una struttura istituzionale fortemente decentrata) e Giappone, 7 dei primi 9 paesi al mondo saranno Stati federali (non a caso l’unica struttura costituzionale che permette di tenere insieme soggetti diversi, che consente un’unità d’intenti strategica pur garantendo diversità e decentramento amministrativo). Il decimo, la Gran Bretagna, non è detto neanche che esista ancora nella sua attuale configurazione statuale, viste le recenti spinte secessioniste in Scozia ed Irlanda del Nord innescate dalla Brexit.
Il secondo elemento è che guardare al passato, come facciamo in Europa, non aiuta a governare il futuro. La Cina si sta attrezzando a gestire un ruolo egemone nel mondo. L’India, molto più sommessamente, fa altrettanto. Gli Usa si crogiolano nel ruolo egemone che pensano di aver conquistato per sempre vincendo la Seconda Guerra Mondiale, o di poterlo sempre riacquisire ricordando la loro supremazia militare. L’Europa sta a guardare, attorcigliata in presuntuose ed inutili diatribe sulla difesa della sovranità nazionale dei suoi Stati membri. Se la situazione non cambierà radicalmente, la civiltà occidentale, soprattutto nella sua dimensione europea, sarà spazzata via. Al massimo, sarà una grande Disneyland a tema, sui fasti del suo glorioso passato, a disposizione del consumo rapido e distratto di miliardi di turisti che ammireranno in una settimana le grandi capitali europee, divenute semplici e sfavillanti musei a cielo aperto (ma non siamo già vicini a questo punto?), come oggi noi andiamo a milioni ogni anno a visitare i templi khmer di Angkor o le piramidi maya di Chichén Itzá. Con popolazioni locali che sopravvivranno portando a giro i turisti, o gestendo alberghi e ristoranti. Nel deserto totale di qualsiasi altra attività creativa e imprenditoriale, in un crescente impoverimento infrastrutturale ed una sempre maggiore distribuzione (iniqua) del reddito che dipenderà in ultima analisi da rendite sfruttabili in senso turistico. Abitando a Firenze, la sensazione che il 2050 sia già arrivato si fa ogni giorno più concreta.
Eppure basterebbe poco. Sarebbe (probabilmente ancora) sufficiente mettere insieme le risorse umane, creative, le intelligenze di lavoro e capitale di tutti i paesi europei non tanto per essere al 4° posto (la UE27 dovrebbe avere, collettivamente, un PIL di circa 28 trilioni di euro), che in fondo è un risultato marginale, ma per avere la possibilità di giocarci la sopravvivenza dei nostri valori sul piano globale: stato sociale, pace, capacità critica, democrazia, libertà… tutti beni preziosi che sono ignorati nel resto del mondo e che contraddistinguono, seppure sempre più indeboliti, la civiltà europea.