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And now: get it done!

Boris Johnson ha stravinto le elezioni in UK, con lo slogan “get it done”: datemi un voto per realizzare la Brexit. Adesso, finalmente, ci aspettiamo che faccia quello che ha promesso, ossia portare la Gran Bretagna fuori dall’Unione Europea entro il 31 gennaio.

Non c’è da gioire. Né per l’Europa, che ha perso una scommessa con i propri cittadini se una parte di essi ha spinto per uscirne, a tutti i costi. Né per l’UK, che dovrà adesso affrontare sfide di portata enorme: stabilire i rapporti futuri con la UE, tenere insieme il Regno, riposizionarsi nei confronti del resto del mondo, etc.

BJ non poteva che vincere. Corbyn si è mostrato per quello che è (e che speriamo non rappresenti il suo partito): ambiguo, pavido, incerto; soprattutto non ha capito quello che era più che palese, ossia che per avere una chance di vincere doveva schierarsi apertamente per il Remain, per contrastare la Brexit di BJ. Come l’aveva capito Macron, che per sconfiggere la Le Pen si era apertamente schierato per una narrazione opposta del sovranismo (nazionale la Le Pen, europeo Macron).

L’accordo di ottobre è dunque la piattaforma negoziale che dovrebbe andare a ratifica entro il 31 gennaio, assicurando un’uscita senza troppe vittime della UK dalla UE. Il problema, naturalmente, inizierà subito dopo. Sia per la Gran Bretagna, che dovrà provare a reinventarsi un ruolo imperiale senza più un impero, in un mondo che cambia continuamente. Ma soprattutto per la UE. Perché se una lezione si può trarre dalla vicenda Brexit è stata proprio il fallimento dell’Unione Europea.

Naturalmente, ci si può crogiolare nella narrazione dominante, che attribuisce alla UK tutte le colpe della scelta. Ad una democrazia diretta chiamata a decidere in assenza di tutte le informazioni rilevanti; ad un paese che ha sempre guardato con scetticismo al percorso d’integrazione europea; ad un’identità nazionale che mal si concilierebbe con una più ampia identità condivisa (ma siamo sicuri? Un britannico riesce perfettamente a sentirsi, ad esempio, cittadino di Glasgow, scozzese, britannico).

Ma occorre superare questa narrazione, per soffermarci (come abbiamo fatto già altre volte) anche sugli errori dal lato continentale. Perché l’UE in cui si è trovata a stare la Gran Bretagna non è una federazione di Stati, capace di garantire beni pubblici collettivi ai suoi cittadini, accanto ma anche indipendentemente dalle identità e dalle lealtà nazionali alle quali appartengono. Non è una società ed un’architettura istituzionale multilivello fondata sul rispetto del principio di sussidiarietà. Non un sistema di governo democratico e direttamente legittimato dai popoli, ma un sistema intergovernativo che agisce con le regole diplomatiche dell’unanimità. Non è un soggetto capace di tutelare il cittadino europeo nelle grandi sfide globali; per cui, alla ricerca di una qualche tutela, il cittadino è costretto a rivolgere il proprio sguardo ai poteri pubblici nazionali.

In un certo senso, l’Europa ha costretto la UK ad uscire dalla UE. Così come rischia di costringere altri paesi a farlo, se vogliono sperare di non rimanere stritolati in una logica immobilista che non serve a nessuno e che sembra solo preludere ad una lenta e dolorosa agonia. Anche in questo senso va letto, a mio avviso, il rialzo della sterlina sui mercati. L’economia non gradisce l’incertezza. Per quanto difficile e doloroso gestire un’uscita della UK dalla UE, e per quanto lunghe e minacciose si allunghino adesso le ombre sulla natura e l’estensione del periodo di transizione, sempre meglio che rimanere appesi in una terra di mezzo, una palude dalla quale sembrava impossibile sapere se e quando la Gran Bretagna sarebbe uscita.

Da domani sarà tutta un’altra storia. Sia per la Gran Bretagna, sia per l’Unione Europea, che deve dimostrare a sé stessa, ma soprattutto ai propri cittadini, di essere una costruzione indispensabile per difendere i diritti civili, politici, economici e sociali nel nuovo mondo globalizzato. Di essere la dimensione ottimale per affrontare le sfide globali che ci attendono ormai da troppo tempo. E di essere al tempo stesso una costruzione multilivello, rispettosa delle differenze e delle diverse lealtà e identità dei cittadini europei, pur mantenendo una direzione strategica comune nei confronti del resto del mondo.

Insomma, mentre la UK dovrà aprire un cantiere costituzionale per reingegnerizzare i rapporti fra le sue varie componenti costitutive (Scozia e Irlanda per prime), la UE dovrà aprire un cantiere costituzionale per diventare una vera e propria democrazia sovranazionale multilivello, ossia un’Europa federale.

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