Il 2019 è stato, senza alcun dubbio, l’“anno cinese”. Quello che verrà potrebbe essere il preludio al “secolo asiatico”. E, dunque, alla subalternità dell’Occidente sia sotto il profilo economico-finanziario che sotto quello tecnologico-militare.
L’avventura geopolitica cinese sta dilatando le sue ambizioni al punto di coinvolgere le regioni centrali dell’Asia, limitare l’influenza russa verso le aree estreme dell’Est, stringere patti sempre più vincolanti con l’India ed il Pakistan, ridurre le terre già sotto il suo dominio, ma sono presenti focolai di resistenza, come lo Xinjiang dove gli Uiguri vengono sistematicamente perseguitati, Hong Kong, senza trascurare la “cinesizzazione” totale del Tibet che può dirsi compiuta, ma fino a quando il Dalai Lama resterà in vita a Pechino nessuno può sentirsi al sicuro.
La stretta attorno alla Chiesa cattolica, da soppiantare con la “Chiesa patriottica” è un altro degli obiettivi di Xi Jinping il quale, avendo soggiogato buona parte dell’Africa, attraverso il progetto della Via della Seta punta decisamente al Mediterraneo e, dunque all’Europa. La guerra dei dazi con gli Stati Uniti non la spaventa: conta su alleati forti e può fare a meno della tecnologia americana, posto che ciò di cui ha bisogno è in grado di produrlo abbondantemente, mentre i nuovi “vassalli”, soprattuto africani e mediorientali, sono inclini a fornirle quelle materie prime di cui necessita.
Il Pacifico è cinese, con buona pace del Giappone che combatte battaglie economiche e politiche di retroguardia e della Corea del Sud la quale ha tutto l’interesse ad intensificare i rapporti con la Corea del Nord. Il ritiro americano dall’area, mentre sembra puntare come interessi geo-strategici ed economici alle regioni orientali latino-americane per influenzarne i movimenti, non farà che avvantaggiare la rete neo-imperialista di Xi Jinping ambiziosa e, almeno al momento, vincente.
Se l’alleanza con l’India, almeno dal punto di vista degli scambi dovesse rafforzarsi (e si nutrono pochi dubbi al riguardo), la Cina “imperiale” non conoscerà ostacoli nel prossimo futuro e con le opportune connessioni potrà costruire davvero il “secolo asiatico” con l’aperto intento di dominare o condizionare l’Occidente.
Occidente che ha rinunciato a qualsiasi forma di leadership. Il neo-isolazionismo americano incarnato dalla figura di Donald Trump è il simbolo della resa. Almeno fino ai confini europei che stanno a cuore alla Casa Bianca, almeno fino a quando questa potrà far sentire, attraverso uno strumento peraltro obsoleto come la Nato, il suo peso che sta diventando irrilevante e forse – o proprio per questo – tende a spaccare l’Unione europea attraverso movimenti populisti che hanno fallito il primo assalto, ma non è detto che non ci riprovino.
L’America è ad un bivio. E la scelta avverrà indubbiamente dopo le elezioni presidenziali del prossimo anno. O perseguirà una politica di contenimento badando esclusivamente a se stessa, oppure rilancerà un progetto di alleanze fondato non sull’egemonia statunitense, ma sulla costruzione di interconnessioni euroatlantiche alla quale non dovrebbe essere d’ostacolo l’esito della Brexit e, dunque, il maggior favore statunitense verso la Gran Bretagna. Sarebbe un errore esiziale che favorirebbe soltanto i “nemici” dell’Europa.
Ma Trump, se non supererà l’impeachment non potrà ottenere il secondo mandato. E, comunque, se tutto andrà come si ritiene, e cioè che i democratici non potranno cantare vittoria, non è detto che vinca la partita di novembre. Ha sbagliato quasi tutto, nella scelta degli uomini e nelle strategie politiche e militari, adesso non gli resta che prendere atto di una esigua maggioranza al Senato che certamente lo salverà, ma non è detto che i suoi repubblicani vogliano vederlo ancora vittorioso dopo che ha distrutto, scientemente, il mondo conservatore al punto che questa componente, ampiamente maggioritaria in America, non ha un leader da opporre al competitore democratico qualora Trump si facesse da parte o risultasse particolarmente debole.
In questi frangenti, il processo di denuclearizzazione della Corea del Nord si è fermato, il mondo arabo è percorso da una nuova ondata di rivolte e di tumulti interni, la radicalizzazione delle classi politiche in senso islamista non favorisce la distensione, in Iraq (dove gli Stati Uniti si stanno disimpegnando) è pressoché quotidiano il bagno di sangue, mentre nella vicina area turco-siriana la mattanza dei curdi continua ed Ankara non sembra affatto intimorita dagli ammonimenti occidentali. Oltretutto il governo di Erdogan sconta gli effetti della regressione nella crescita globale e la Turchia che già non se la passa bene, il prossimo anno corre il rischio di una crisi finanziaria della quale dovrà necessariamente occuparsi il Fondo Monetario Internazionale Internazionale. L’islamizzazione del Paese, anche sulla spinta di pulsioni demagogiche, si radicalizzerà ulteriormente, come è prevedibile la radicalizzazione dell’Algeria, frastornata dopo le elezioni-farsa delle scorse settimane e la prematura morte di Gaid Salah, uomo forte del Paese, il Marocco dove pure sonno divampati focolai di intolleranza, la riapparizione dei Fratelli Musulmani nel Maghreb e nel Mashrek.
Veglia attivamente, sulle “guerre islamiche” l’Arabia Saudita che dà le carte a seconda dei suoi interessi, guardandosi intorno e non subendo mai i contraccolpi delle crisi che si manifestano nelle sue vicinanze. Potere del petrolio, senza dubbio, ma anche effetto politico di una casta che rimane chiusa ed è unica interlocutrice a livello mondiale di tutti gli affari che si dipanano tra New York, Pechino, Londra e Francoforte.
Il conflitto, momentaneamente sopito tra la Russia e l’Ucraina dovrebbe avvantaggiare Putin nella sua opera di “normalizzazione” dell’area. Restano inquiete le Repubbliche baltiche, ma potendo contare sui saldi legami con l’Europa ed in particolare con la Germania, si sentono abbastanza sicure. Il demiurgo del Cremlino punta alla rielezione e, dunque, alla modifica della Costituzione: un colpo che gli riuscirà facilmente ed il 1920 vedrà ancora Putin al vertice della Russia con l’ambizione di contrastare la penetrazione della Cina nell’area di sua competenza. Nessuno dei due Paesi ha voglia di farsi male, ma entrambi hanno interesse, attraverso l’Africa di mettere le mani sull’Europa.
Ecco il punto debole di un’ideale catena geopolitica. L’Europa non esiste. O meglio esiste davvero soltanto come espressione burocratico-amministrativa. I suoi mali li conosciamo, dall’incapacità di regolare i flussi migratori alla decrescita economica, alla denatalità, alla rassegnazione a fare da cortigiana ai potenti della Terra.
Guardiamo in casa nostra ed è avvilente constatare che tutti gli indici ci danno tra l’ultimo ed il penultimo posto nell’Unione europea. Guardiamo alla Francia e ci rendiamo conto che non sta meglio di noi con l’aggravante di un signor, eletto soltanto due anni e mezzo fa, è da due anni in caduta libera, contestato da tutti, animato soltanto dall’ambizione di fare dell’Europa una sorta di dependance francese: il nuovo “mal francese” si potrebbe dire. Voleva riformare l’Unione insieme con Angela Merkel, ma la coppia è scoppiata, come stiamo vedendo, lui – che si paragonava a Jupiter – non riesce a mettersi in sintonia con il ceto medio che l’ha abbandonato riconoscendolo come il presidente dei ricchi; lei perché il suo slancio vitale si è esaurito, unitamente a quello del suo partito e ha cominciato a delegare i suoi poteri.
Le altre nazioni europee sono inguardabili politicamente: disfatte per non aver saputo costruire una comunità di Stati e di popoli, una confederazione che garantisse il potere di trattare soprattutto con l’Africa ed a tal fine mettere in piedi una strategia euromediterranea della quale pure si parlò anni fa a cavallo della Costituzione europea, uno dei più grandi fallimenti della peggiore classe politica continentale che, tanto per non farsi mancare nulla, rinunciò all’enunciazione dei suoi principii identitari.
Ecco. Stalin non portò i cavalli dei cosacchi ad abbeverarsi alle fontane di Piazza San Pietro. È probabile che dentro San Pietro il nuovo imperatore cinese ci entri con il plauso di una Chiesa poco zelante nel difendere le sue prerogative in Oriente ed accomodante in nome di un incomprensibile ecumenismo politico, oltre che religioso, e l’indifferenza di un Occidente che guarderà al “secolo asiatico” quasi estasiato.
È tempo di rileggere Il tramonto dell’Occidente dell’intramontabile Oswald Spengler. Il 2020 potrebbe essere il suo anno.