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America Latina, Iraq e Libano. L’autunno caldo per reinventare la democrazia

C’è una frase dell’Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium, pubblicata nel 2013, che pochi seppero leggere con l’attenzione che meritava: “In molte parti del mondo le città sono scenari di proteste di massa dove migliaia di abitanti reclamano libertà, partecipazione, giustizia e varie rivendicazioni che, se non vengono adeguatamente interpretate non si potranno mettere a tacere con la forza”. Erano gli anni della Primavera Araba e molti preferirono soffermarsi sulla diversità economico-sociale dei vari Paesi coinvolti. Una verità tanto indiscutibile quanto la verità che voleva celare: al fondo di quelle Primavere diverse c’era una richiesta comune.

Oggi, pochi mesi dopo nuove proteste che inondano il mondo, padre Giovanni Sale, sul nuovo numero della Civiltà Cattolica, ce le presenta insieme, senza ovviamente voler negare le diversità che contraddistinguono quanto accade in America Latina e quanto accade in Iraq o in Libano. Il titolo dell’articolo già dice molto: “Le rivolte globali dell’autunno caldo”. In effetti se il 2011 iniziò in primavera (non fu così ma per convenzione così si disse) quanto accade oggi è (per noi) un vero autunno caldo del mondo, con le sue rivendicazioni. Dunque anche questa volta non va perso di vista il filo che le lega.

Da una parte c’è l’economia liberista e la globalizzazione, che pur avendo offerto vantaggi e progressi non sanno più seguire una prospettiva di crescita. “Sia nei Paesi ricchi sia in quelli poveri, le élite al potere hanno promesso, a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, che le politiche neoliberiste avrebbero portato a una crescita economica più veloce, i cui benefici si sarebbero poi riversati indistintamente su tutti, aumentando il livello di vita delle classi meno abbienti. Il che non è avvenuto. Anzi, tale modello economico ha portato alla grande crisi del 2008. Così oggi, per salvare le economie nazionali, i lavoratori in molti Paesi sono costretti ad accettare stipendi più bassi e, in generale, tutti i cittadini si devono rassegnare al taglio dei servizi assistenziali di base erogati dallo Stato”.

Rispetto al 2011 questo 2019 riguarda una complessità di Paesi assai più ampia e articolata di quelli di allora. Per esempio la Francia è troppo diversa da molti dei Paesi coinvolti, come la Colombia o la Bolivia. Dunque non si può tacere che una parte del movimento riguarda l’insoddisfazione nei confronti di governi democratici, democraticamente eletti, e questo costituisce una novità rilevante. “Non mancano però i casi – e non sono pochi – in cui la gente (soprattutto i giovani) si è mobilitata nelle città per chiedere più democrazia e più libertà in Paesi ‘autocratici’, come a Caracas, Hong Kong e Istanbul. Queste persone non sono deluse dalle istituzioni democratiche, ma combattono perché vedono le loro libertà e i loro diritti messi a rischio o negati. In ogni caso, scrive Yascha Mounk, ‘se la democrazia liberale si è rivelata più fragile di ciò che la maggior parte dei sociologi ipotizzava pochi anni fa, non si intravede ancora un sistema alternativo in grado di risolvere meglio le sue contraddizioni interne’. Mentre i nuovi populisti, sia di destra sia di sinistra, si sono dimostrati abili nel mettere in pericolo le istituzioni democratiche con l’illusoria promessa di restituire il potere al popolo, i loro ‘istinti autoritari’ alla fine hanno fatto sì che ampie fasce di popolazione, soprattutto in America Latina – ma questo potrebbe capitare anche in Europa o in Medio Oriente –, si rivoltassero contro di loro”.

L’articolo espone le peculiarità di alcuni casi importanti, come quello boliviano, molto particolare anche per la crescita economica che il governo Morales aveva prodotto negli anni trascorsi ma inciampando probabilmente sul desiderio di “eternità”.

In definitiva quel che emerge come un problema globale è la richiesta di curare le ingiustizie prodotte dal sistema economico vigente pressoché ovunque, il crescente divario tra ricchi e poveri e le promesse mai mantenute da parte dei governanti. Il rischio è che questi moti, nel 2011 come nel 2019 senza leader riconosciuti, sfocino in insurrezioni violente che, alla fine, avvantaggerebbero soltanto soluzioni di governo autoritarie e rafforzerebbero le tendenze nazionaliste e protezioniste. Ma è la citazione di Bertrand Badie che ci consente di capire nelle diversità il filo logico che unisce le proteste in una finalità in contesti dissimili. Osserva infatti padre Giovanni Sale: “La strada è in salita – scrive Badie – e l’obiettivo è ambizioso: reinventare la democrazia. Ma è quello che chiedono queste rivolte, in tutte le latitudini del pianeta.”

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