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Perché l’interventismo pubblico non ci salverà. Il commento di Chimenti

I fatti di cronaca relativi a gravi crisi industriali e finanziarie si susseguono a ritmo incalzante e l’impressione che se ne ricava è ormai di grave allarme sociale. Alitalia, Ilva e ora anche Banca Popolare di Bari. Ma i tavoli di crisi e le procedure di salvataggio, comunque denominate, sono ormai troppi. E le conseguenze sono molto gravi sia per il tessuto imprenditoriale del Paese, sia per la finanza pubblica.

Basti pensare che, secondo stime oltretutto prudenziali (fra le tante, quelle effettuate da Mediobanca e di recente aggiornate dagli analisti del Sole 24 Ore), lo Stato ha sinora vanamente speso l’enorme cifra di quasi 9 miliardi di euro per la sola Alitalia, con esiti a dir poco disastrosi per la compagnia di bandiera, i dipendenti, i creditori, l’indotto.

Il caso della Popolare di Bari è davvero emblematico. È doveroso premetterlo: le indagini e le ricostruzioni sono appena all’inizio e l’analisi sarà molto complessa e ancora molto lunga.

E tuttavia è già possibile svolgere alcune riflessioni. Dalle prime ricostruzioni disponibili emerge un quadro sfortunatamente già visto nei grandi crack.

Da un lato, un management che dovrà rispondere di condotte discutibili, nella migliore delle ipotesi imprudenti. Dall’altro, un sistema di vigilanza che, ancora una volta, per ragioni tutte da indagare, ha fallito completamente nel rilevare tempestivamente i segnali della crisi e nell’attuare i mezzi di reazione che pure l’ordinamento ha approntato. E davvero questo dato desta clamore e scalpore, atteso che la riforma della legge fallimentare e delle procedure concorsuali dedica spazio proprio agli istituti di allerta e prevenzione. Salutati come una vera e propria panacea, si sono già rivelati inefficaci e di rilievo modesto, se non nullo.

Da questo cortocircuito, il crack. Ma il discorso, come già si rilevava, è più complesso. Ancora una volta, infatti, il problema pare essere strutturale e sistemico. Difatti le cause del dissesto della Popolare di Bari non si esauriscono solo nella presunta mala gestio del managament e nella disattenzione della vigilanza. Esse sembrano attingere a ragioni più profonde, legate alla sua struttura aziendale, al tessuto economico, alla realtà sociale e all’indotto entro cui l’istituto operava, alla sua capacità di rispondere alle esigenze di imprese, famiglie e piccoli-medi risparmiatori.

È qui che origina il vero e forse più grave fallimento. Una banca divenuta incapace di rispondere efficacemente alla propria clientela, appesantita da una politica di acquisizioni e di espansione mai veramente pianificata nelle proprie conseguenze. Una banca che, con ogni probabilità, ha acquisito un numero di sportelli esorbitante rispetto al proprio volume di affari e, soprattutto, rispetto alle tendenze della moderna tecnica bancaria, sempre più incentrata sull’operatività digitale, sui prodotti innovativi e su tecniche di raccolta di risparmio ed erogazione del credito che sappiano ovviare al momento macroeconomico attuale in cui i margini di guadagno per gli istituti di credito sono sempre più ridotti rispetto agli strumenti tradizionali.

Se non si comprendono questi profili, le soluzioni approntate saranno immancabilmente inefficienti. Di più, l’intervento pubblico di reazione rischia di essere, ancora una volta, non solo dannoso, quanto inutile.

Gli organi di stampa riportano annunci, ancora una volta preoccupanti. Si parla, nuovamente, di salvataggio. La logica è sempre emergenziale. E, come sempre accade in un contesto emergenziale, difettano sia lo studio sia il rigore.

Per quale ragione la Popolare di Bari dovrebbe essere “salvata” se, al netto, come detto, di condotte su cui l’autorità giudiziaria sarà chiamata a indagare, a condannarla è stato soprattutto il mercato? Per quale motivo si dovrebbero immettere addirittura risorse pubbliche per ripristinare un modello che ha già fallito? E come valutare quante e quali risorse immettere?

Certo, una crisi bancaria desta grave allarme sociale; in un sistema “bancocentrico” come quello italiano si rischiano fenomeni di concatenazione e contagio, un “effetto domino” ben noto. Tuttavia, il dovere di ogni seria politica economica è quello di effettuare valutazioni rigorose, che tengano conto del contesto e, soprattutto, dell’esiguità delle risorse disponibili. Per tacere del fatto che, nel caso di specie, la struttura cooperativa dell’istituto fa sì che i clienti-risparmiatori siano anche contemporaneamente azionisti della banca, partecipino cioè a un capitale di rischio. E allora, per quali ragioni essi dovrebbero godere di maggior tutela rispetto ad altri azionisti, ancorché piccoli, di società non bancarie? Siamo certi che questa discriminazione di trattamento si giustifichi per il solo fatto di attenere al settore bancario?

Il vero è che, per ridurre simili distorsioni, gli interventi pubblici – in attesa di comprendere quali siano e di quale natura – dovrebbero essere comunque modellati, quanto meno, sulle specifiche crisi bancarie ed essere graduati in relazione all’entità della crisi e, soprattutto, alla rilevanza dell’istituto coinvolto, avuto riguardo anche agli interessi strategici del Paese.

Diversamente, si finirebbe con il creare sperequazioni ingiustificabili e, ancora una volta, aggravare il problema anziché risolverlo.

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