Stavolta è toccato alla Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Michelle Bachelet, finire sotto l’attacco di Pechino per aver criticato (osato criticare, sarebbe da dire) l’opera repressiva della polizia di Hong Kong – gestita dalla Cina. “Interferenza inappropriata” negli affari interni cinesi, è stato il commento immediato con cui la rappresentanza cinese all’Onu ha reagito oggi a una lettera aperta che Bachelet aveva fatto pubblicare ieri dal South China Morning Post (quotidiano hongkonghese di proprietà del gigante dell’e-commerce Alibaba).
La sorte della commissaria cilena è tutt’altro che un unicum, anzi. Chiunque tocca Hong Kong, chiunque prova a parlare della reazione repressiva con cui il Partito comunista cinese ha risposto alle dimostrazioni finisce accusato di perseguire interessi terzi, di usare il dossier per sabotare la Cina, di essere un nemico della Repubblica popolare, di interferire in dinamiche interne al Celeste Impero con obiettivi infimi.
Nei giorni scorsi l’ambasciata cinese in Italia s’era scagliata contro il Parlamento colpevole di aver ospitato il leader del partito Demosisto di Hong Kong, Joshua Wong, che in una conferenza via Skype aveva interagito con alcuni parlamentari italiani – presenti in forma bipartisan molto ampia, dove solo esponenti del M5S avevano saltato l’appuntamento. Prima ancora era toccato al dipartimento di Stato americano: i media di stato cinesi avevano diffuso informazioni riservate (in violazioni dei protocolli internazionali) su una funzionaria del consolato americano a Hong Kong che si era incontrata pubblicamente proprio con Wong. Ma sono molte le istituzioni e i privati che sono finiti sotto attacco cinese per via della crisi.
E intanto le proteste contro la spinta che Pechino sta imponendo alla cinesizzazione del Porto Profumato proseguono per le strade, e dopo i primi mesi iniziali, parte delle manifestazioni ha preso ormai una forma di protesta violenta (una condizione che la Cina ha contribuito artificialmente a creare). Oggi decine di migliaia di manifestanti pro-democrazia sono tornati in piazza dopo un breve periodo di calma. Nella notte tra sabato e domenica, nel quartiere di Mong Kog, alcune strade sono state bloccate con barricate improvvisate, e la polizia ha usato gas lacrimogeni.
È stata la prima azione del genere dopo il voto del 24 novembre, in cui alle elezioni distrettuali hanno trionfato i candidati anti-Cina, ossia democratici. All’inizio del pomeriggio di oggi una manifestazione più piccola si è tenuta di fronte al consolato americano per ringraziare Washington per il sostegno al movimento di protesta. Nei giorni scorsi la Casa Bianca ha firmato una legge con cui il Congresso aveva ratificato in modo bipartisan forme di sostegno alle istanze dei manifestanti – un’altra di quelle questioni su cui la Cina aveva ringhiato.
La Cina non vuole che si parli della situazione di Hong Kong perché è un dossier che crea imbarazzi al Partito, che vorrebbe spingere una repressione brutale per riaffermare la propria forza contro qualsiasi forma di critica, ma che non può per ragioni di immagine. Pechino è inserita in un sistema di mercato, il Wto, che teoricamente si basa, almeno sul piano etico, anche sul rispetto dei diritti umani e civili. La Cina con le accuse contro chi si espone sulla crisi nell’ex colonia britannica prova a testare quanto spazio di pressione riesce ad avere sui vari player internazionali.