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Viaggi, case, macchine. Ecco il nuovo capitalismo digitale di Instagram

Di Paolo Landi

Instagram è “un niente”, si basa su valori immaginari, ciò che lo caratterizza è un meccanismo di volatilizzazione delle realtà materiali ed economiche. Nel mondo degli Instagrammer sembra che esista solo la ricchezza che è, nello stesso tempo, indispensabile e marginale: nei vari profili è in atto un’operazione di occultamento e di rimozione delle basi produttive ed economiche; non si sa – e in fondo non ci interessa sapere – di cosa vivano gli user e i follower, che siano migliaia o milioni. E, del resto, a nessuno sembra importare molto chi sia il padrone dei social, chi li detenga, chi li controlli, quali strategie applichi.

NP_45_landi-instagram_exeLa fisionomia del nuovo capitalismo digitale è sfuggente, imprendibile, certamente non ha niente a che fare con la formazione della ormai vecchia generazione che si ostinava a cercare di sapere chi comandasse al Corriere della Sera, quando individuare la proprietà dei mezzi di comunicazione voleva dire togliere l’antagonismo dall’astrattezza, identificando una responsabilità. Instagram rende psicologica, metafisica l’economia e, in qualche modo, la spiritualizza. Sono pochissimi i profili dai quali si può risalire al lavoro dei profilati. Eppure il criterio fondamentale che determina lo status di una persona è il suo lavoro, l’occupazione con la quale si guadagna da vivere. A questa sono legati il reddito e le possibilità di consumo che il reddito può sviluppare.

Su Instagram la casa, la macchina, l’abbigliamento, i cibi, gli hotel e gli Airbnb dove si soggiorna, i viaggi che si fanno rappresentano i simboli dello status sociale e si somigliano tutti, sia che rappresentino un esponente della low, della medium o della upperclass (naturalmente un occhio allenato saprà riconoscere le differenze). Le persone sono sempre più affascinate da chi dimostra di potersi permettere merci superflue e lo imitano. Il risultato è un Instagram pieno di gente che ha per modello chi non ha bisogno di guadagnarsi da vivere perché è nato ricco. Il criterio della dimostrazione di status che esige l’ostentazione della ricchezza sembra il criterio-guida di profili che mostrano il meglio di sé, tra viaggi, ristoranti, composizioni floreali, gite in barca. Il lavoro, quando viene fatto oggetto di un post, è sempre dematerializzato: dalla fatica, dalla routine, dall’alienazione. #lovemyjob è l’hashtag che si vede più frequentemente, insieme a #myofficetoday e il “lavoro che si ama” non è mai quello del cameriere in un fastfood e il “mio ufficio oggi” spesso è il set di un servizio fotografico alle Maldive.

Lavori da terziario 4.0 avanzatissimo, dove non c’è posto per i vecchi mestieri o, meglio, dove i vecchi mestieri assumono connotazioni nuove e riuniscono sotto lo stesso genere parrucchieri, trader, stylist, promotori finanziari, estetiste, assicuratori, blogger, scrittori, broker, chef, avvocati, dog sitter, ingegneri, web designer. Profesioni che un tempo erano indicatori di censo sui social appaiono livellate, in un mondo in cui gli studi legali e gli showroom, le banche e i ristoranti sono sullo stesso piano, n corso alla Scuola Internazionale della Cucina Italiana vale come un master alla Bocconi e chi li frequenta si ritrova ogni sera nei posti deputati per l’happy hour, nella mescolanza tipica di Instagram che sembra azzerare le differenze di classe. Instagram parla snobisticamente allo stesso modo del lavoro e dell’ozio, emblematicamente riuniti in uno status, quello di influencer, sempre pienamente ozioso e sempre pienamente occupato, esempio sincronico di lavoro durissimo e di vacanza infinita.

I più svegli tra i frequentatori di Instagram hanno subito capito che mettere foto poteva diventare un lavoro: non occorre avere nessuna specializzazione, esseri belli aiuta, ma non è indispensabile, i filtri aiutano a migliorarsi. Oggi le aziende, soprattutto quelle di moda ma anche gli hotel, le compagnie aeree, i ristoranti, i brand di orologi, gioielli, champagne, vini e molte altre, sono disposte a pagare da 5.000 a 50.000 euro per un post su Instagram, in cui un influencer indossa un capo, si fotografa mentre viaggia in prima classe, o in una stanza di hotel, davanti a un piatto, con un orologio al polso, mentre beve da una flûte di cristallo, “taggando” i relativi marchi. Per scegliere gli influencer le aziende si basano sul numero dei follower che questi hanno. Ma i follower, come ormai tutti sanno, si possono comprare. Basta cercare su Google “Come aumentare follower Instagram” e compaiono mille possibilità, a pagamento ovviamente. Instagrow, per esempio, promette di trovare “il giusto target” e utilizzerà “tecniche legittime per permetterti di crescere organicamente e aumentare la tua esposizione su Instagram: che tu sia influencer, viaggiatore, food blogger, azienda, rivenditore di accessori e abbigliamento, tatuatore o gamer”.

Potremmo definire Instagram una compressione della società: un insieme – limitato, anche se ormai gli utenti di Instagram hanno superato il miliardo – di individui che cercano di stabilire certe relazioni. La forma di Instagram è determinata dal carattere e dalla configurazione di queste relazioni, che mostrano un legame rivelatore tra individui e ricerca del benessere materiale. Gli economisti classici consideravano la materia oggetto dell’economia come qualcosa di sociale e collettivo. Gli influencer di Instagram ci dicono che il sistema economico non deve essere più considerato motore di relazioni sociali, tra individuo e individuo, bensì propulsore di relazioni fra individui e merci: tanti casi di individui isolati che ripartiscono il loro tempo tra la produzione di reddito reale e il godimento che ne può conseguire. Ma, mentre nell’economia classica il reddito serviva ad appropriarsi di beni e il piacere veniva sempre dopo il dovere, in Instagram la produzione di reddito coincide con il piacere, lavoro e ozio sono consustanziali, equivalenti: l’influencer “lavora” come assaggiatore di cibi prelibati, viaggiatore in first class di compagnie aeree, ospite nelle suite degli alberghi più prestigiosi. Se le persone sono sempre più affascinate da chi dimostra di non aver bisogno di lavorare per vivere, allora è per questo che sempre più follower cercano di diventare influencer.

In fondo, che differenza c’è? Si è influencer non perché a questa qualifica siano associate capacità, conoscenze, esperienze o studi particolari. Lo si è per autoproclamazione: si comincia a farsi seguire dagli amici, poi, comprando follower si arriva a “influenzare” (sulla carta) migliaia e migliaia – a volte milioni – di seguaci; facendo un lavoro che può rendere molti soldi ma che rimuove i capisaldi dell’economia tradizionale perché afferma in modo assertivo che lavoro e tempo libero sono la stessa cosa. La chiave di questo affascinante mutamento sociale non va ovviamente più cercata nei cambiamenti dei modi di produzione: sapevamo che qualunque bene, destinato alla scambio, è una merce.

Con Instagram gli influencer sono, essi stessi, merci, senza tuttavia smettere di essere individui, anzi, elevando alla massima potenza il loro valore di individui: sono loro e loro soltanto ad essere pagati dalle aziende per indossare un loro capo di vestiario, perché viaggino con la loro linea aerea, bevano il loro champagne, portino al polso il loro orologio. Potrebbe sembrare un aggiornamento della professione di modella/ modello ma nel caso delle indossatrici/indossatori il rapporto è sempre quello classico tra chi ingaggia qualcuno e lo paga per eseguire un lavoro, che si svolge in un determinato numero di ore, durante le quali la modella o il modello stanno chiusi in uno studio fotografico (o all’aperto, a seconda dell’ambientazione dello shooting) e, per questo servizio, a esecuzione terminata, vengono retribuiti. In Instagram, invece, i brand pagano un influencer che è lui stesso un brand: lo pagano perché è lui (o lei) in ogni momento della sua vita, non perché sia particolarmente bello, né perché abbia meriti particolari, se non quelli di essere, appunto, sé stesso.

Instagram decreta la fine del rapporto di proprietà, chi paga non è più proprietario (temporaneo) del tempo di chi è pagato, chi è pagato non è tenuto a fornire alcuna prestazione, alcun tipo di servizio, se non quello di essere (o apparire) come è, nessuno dei due contraenti sembra immerso in un rapporto di lavoro, tutti e due sono impegnati piuttosto a rendere volatile l’economia, ad occultare la materialità dello scambio. Il valore dell’oggetto promosso (indossato, sperimentato) sarà infatti tanto più alto quanto più sembrerà che l’influencer lo abbia scelto, lo snob effect funziona ad alti tassi di pretesa gratuità, nessuno parla di soldi (che naturalmente, invece, corrono a fiumi). Di pari passo con l’aumento degli influencer – “Siamo tutti artisti” si diceva agli inizi degli anni ottanta, mal interpretando Warhol e i graffitisti, di cui colpiva la presunta facilità di esecuzione di un’opera e la libertà nell’esporla in strada e nelle periferie.

“Siamo tutti influencer” si potrebbe dire oggi – procede il deprezzamento economico delle loro performance. Alla moltiplicazione degli influencer da 10k o 50k follower, una sorta di esercito industriale di riserva, si oppone la peculiarità di pochi, famosissimi, da milioni di follower, che determinano un effetto depressivo sul valore delle migliaia di collegi, mentre cresce esponenzialmente il loro, che arrivano ad essere retribuiti anche con 50.000 euro a post. Ma la produttività del lavoro della massa di influencer non accenna a diminuire, impegnati a vestirsi, a truccarsi, a viaggiare, a soggiornare in hotel, ad assaggiare cibi e vini. E, accanto a loro, c’è tutto un proliferare di esperti, tutor di qualunque cosa, coach: ragazze e ragazzi che si improvvisano maestri per insegnare come ci si veste, ci si trucca, ci si dipingono le unghie, si fa il tiramisù, si investe in bitcoin, si accresce la propria autostima, si accudisce il proprio cane. Questa nuova figura, l’influencer, racconta meglio di ogni analisi sociologica come cambia oggi il lavoro in quello che una volta era chiamato “terziario avanzato”.

Oggi, il terziario avanzato – quella parte del sistema economico che si basava sul lavoro intellettuale ad alto valore aggiunto, per distinguersi dal terziario semplice, a basso valore aggiunto – richiede una forza lavoro così diversa dalle altre al punto che a definire l’identità di questo nuovissimo lavoratore serve più il lavoratore in sé, esso stesso strumento di produzione, piuttosto che la filiera produttiva o di servizi nella quale è inserito. Siamo in una fase pionieristica, l’economia digitale – una sorta di rivoluzione industriale del XXI secolo – è ancora alla ricerca di una definizione, il lavoro delle persone sta cambiando, si palesano nuove professioni. Gli influencer prefigurano un’economia sovvertita nelle sue regole e un lavoro di tipo nuovo, dematerializzato, che sfugge ad ogni modello tradizionale di classificazione e che probabilmente, così come lo intendiamo oggi, in un’epoca non lontana, sparirà.

Paolo Landi è advisor di marketing e comunicazione per grandi aziende



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