Dopo il caso di spionaggio industriale che alla fine dello scorso mese di agosto condusse all’arresto da parte della polizia italiana, su richiesta delle autorità statunitensi, prima di un manager russo, Alexander Korshunov, e poi del suo presunto complice italiano, Maurizio Paolo Bianchi, qualche settimana fa si è avuta notizia di un’indagine della Procura di Roma a carico di un diplomatico italiano, Antonio Morabito. L’accusa, a quanto si è appreso dalla stampa, è quella di aver fornito a investitori cinesi, in cambio di consistenti compensi, informazioni riservate su alcune aziende italiane oggetto del desiderio degli operatori orientali. Alla luce di queste notizie dobbiamo pensare che, in tempi di dura competizione globale, l’Italia sia tornata a essere crocevia di spie, come negli anni più cupi della Guerra fredda?
Se così fosse, non sarebbe certo una sorpresa, perché da molto tempo è noto il forte interesse che per il ricco patrimonio tecnologico delle imprese italiane nutrono Paesi come Russia e Cina (solo per ricordare quelli che emergono nei casi citati, ma l’elenco potrebbe essere più lungo). Purtroppo, la circostanza che non si tratti di una sorpresa non mitiga la gravità del fenomeno e, soprattutto, non esclude la possibilità che le cose in realtà stiano peggio di quanto appare.
Proviamo allora ad allargare il campo di visuale e prendiamo in considerazione un altro episodio verificatosi nel corso del 2019, il cui protagonista è un diplomatico italiano molto noto: Cesare Maria Ragaglini, già ambasciatore a Mosca dal 2013 al 2017, nominato vicepresidente della VEB, la seconda banca russa, caratterizzata da una forte proiezione estera a sostegno degli investimenti ritenuti strategici dal governo. In questo caso siamo evidentemente di fronte a un comportamento del tutto lecito, quello di un servitore dello Stato italiano che, conclusa la sua brillante carriera, accetta la prestigiosa offerta di un governo straniero, dal quale ha anche ricevuto l’Ordine dell’amicizia. Si potrebbe forse discutere dell’opportunità di tale scelta e si potrebbe anche richiamare alla memoria il caso di Gerhard Schroeder, l’ex cancelliere tedesco che nel 2006, pochi mesi dopo la fine del suo mandato di governo, accettò da Gazprom la nomina di presidente del consorzio Nord Stream.
Qui a Checkpoint Charlie (rubrica della rivista Airpress, ndr) siamo però abituati a stare ai fatti, nei quali va incluso evidentemente anche il caso, sul quale ci siamo soffermati nei mesi scorsi, degli incarichi assunti da Sandro Gozi presso i governi di Francia e Malta. Ebbene, questi fatti ci dicono che nel 2018 lo shopping estero in Italia non si è limitato alle aziende ma ha riguardato – nel bene e nel male, sopra o sotto il pelo dell’acqua, in maniera talvolta lecita, talaltra meno – esponenti più o meno importanti del management pubblico e privato italiano. Semplici coincidenze temporali legate a scelte individuali tra loro diversissime per motivazioni e legittimità? Possibile. Ma per chi non crede alle coincidenze, e ha davanti agli occhi disastri come Alitalia e Ilva, o la spericolata adesione italiana alla cosiddetta “Nuova via della seta”, prende sempre più corpo l’immagine di un’Italia terra di nessuno, in cui l’evidente debolezza delle istituzioni si riflette sul sistema-Paese e apre le porte, come mezzo millennio fa, alle scorribande di stati stranieri ansiosi di fare bottino prima che la nave affondi. Forse, il “si salvi chi può” è già suonato.