Quando Xi Jinping si è affacciato alla storia, non era consapevole di essere già parte della storia della Cina e, in nuce, di quella planetaria che lo avrebbe visto protagonista. Ma il destino si è incaricato molto presto di svelargli il cammino che avrebbe compiuto assecondandolo.
Il leader comunista, figlio di un alto gerarca del regime, Xi Zhongxun, compagno di Mao Zedong e protagonista della prima ora della Rivoluzione cinese, poi caduto in disgrazia ed in seguito riabilitato dall’amico Deng Xiaoping, avrebbe – nelle controverse vicende che hanno segnato la sua famiglia – seguito le orme del padre fino alla conquista finale del potere. Nel 2018, la rivista Forbes, nello stilare la classifica dei settantacinque uomini più potenti del mondo, lo ha collocato al primo posto, davanti a Vladimir Putin e a Donald Trump.
Nel suo Paese è considerato alla stregua di un “intoccabile”, una specie di imperatore redivivo, l’uomo più potente che la Cina abbia avuto dopo la caduta della dinastia Qing, il politico che fa impallidire la fama di Mao. Xi Jinping, caduto come suo padre, sotto i colpi della Rivoluzione culturale, vittima degli errori e degli orrori del maoismo e dell’integralismo ideologico, del pauperismo e del dispotismo burocratico, è quasi un “miracolo” partorito dalla politica e dai mutamenti tellurici che negli ultimi trent’anni si sono verificati in Cina.
Oggi, dopo una lunga traversata nel deserto, adattatosi con spirito disponibile al sacrificio, incurante di ciò che lo sfiorava nel tentativo di gettare ombre sulla sua personalità, cinico e fiero, dotato di un alto senso dell’appartenenza alla società comunista della quale si è sempre sentito figlio perfino nei lunghi anni in cui il potere si è accanito contro il suo clan, ed in particolare su suo padre, Xi Jinping assomma nelle sue mani tutte le cinque cariche più importanti dello Stato e del partito, più qualcuna che potremmo derubricare a divertissement. Ma non si diverte per niente il vero Grande Timoniere che ha oscurato la memoria dell’altro, a cui sta visibilmente a cuore il fine perseguito fin da giovanissimo come un sogno: rifare della Cina un impero.
IL SECOLO CINESE
È questo che la maggior parte di sinologi non ha compreso. L’ambizione di Xi Jinping è quella di costruire il “secolo cinese”, avanguardia di un nuovo mondo dominato da una potenza nella quale nazionalismo, socialismo, economia di mercato, cibernetica, tecnologia sofisticata, controllo della società attraverso l’informatica e distruzione diritti umani ritenuti un freno all’espansionismo politico, si tengono in un sistema dominato dell’economia controllata dal partito ferreo custode dell’ortodossia. Il che riporta per un verso al maoismo della Rivoluzione culturale e per un altro all’uso spregiudicato di pratiche di potere addirittura pre-maoiste, quelle esercitate dalle caste asserragliare nella Città proibita, accanto alla quale, non a caso, negli anni di Mao e della sua cricca di potere, venne costruita la sontuosa dimora di Zhongnanhai, una specie di Eden della nomenclatura dove le ville dei gerarchi, sontuose, eleganti, spaziose, costituiscono il set di un reality politico giocato su un solo tema: il dominio del mondo.
Gennaro Sangiuliano, che pratica l’arte del biografo con lo stesso stile e la stessa sapienza di Emil Ludwig, è stato uno dei pochi a comprendere la personalità e gli scopi di Xi Jinping, studiandolo a fondo e lumeggiando la sua complessa psicologia, oltre che narrando con dovizia di particolari gli eventi che hanno contribuito a formarne il carattere.
SPIETATA CRITICA AGLI ORRORI DEL MAOISMO
Ne è venuto fuori un ritratto completo e profondo, probabilmente il migliore apparso finora in Europa, nel quale nessun aspetto è trascurato, e soprattutto l’intreccio della vita familiare di Xi Jinping con gli sviluppi della Cina dopo il 1949 dà il senso di una saga personale e collettiva che s’intitola alla nuova Cina, la Cina dell’imperatore senza vesti sontuose, ma dopo millenni capace di lanciare al mondo una sfida che definire neo-imperialista è tutt’altro che improprio.
Il nuovo Mao. Xi Jinping e l’ascesa al potere nella Cina di oggi (Mondadori, pp.276, € 22,00), è certamente la storia del demiurgo cinese, ma è anche il drammatico racconto delle efferatezze quasi diaboliche del maoismo che come un carrarmato è passato sulle esistenze di decine di milioni di esseri umani dando luogo ad una delle più brutali repressioni che si ricordino, sbagliando peraltro tutto, immiserendo un Paese già prospero, distruggendo tradizioni ancestrali, facendo vivere i cinesi sotto la cappa della paura, distruggendo etnie nobili e acquisendo nazioni di grande religiosità come il Tibet.
Mao – e Sangiuliano non gliene risparmia una – è stato uno dei più grandi criminali della storia le cui mani hanno grondato sangue mentre maneggiavano ricchezze personali divise con i suoi sodali e finite poi per finanziare le ambizioni sanguinarie della banda dei Quattro, della quale faceva parte sua moglie, Jiang Qing, donna crudele e priva di scrupoli.
Ma l’immoralismo maoista che si celava nelle lussureggianti dimore della comunista Città proibita, non finiva soltanto negli arricchimenti illeciti e nella tessitura delle trame di potere, ma nell’orgiastica vita cui i gerarchi si dedicavano a cominciare da Mao che disponeva di un vero e proprio harem. Nel frattempo Xi e la sua famiglia vagavano costretti come delinquenti tra campi di rieducazione, fattorie proletarie, centri di detenzione al pari di tanti altri comunisti individuati dalle cricche maoiste quali “controrivoluzionari”. È stato in questo pellegrinaggio nel dolore che si sono formati dirigenti come l’attuale leader cinese.
RIFORME ECONOMICHE SÌ, POLITICHE NO
Xi ha compreso, racconta Sangiuliano, come le riforme economiche non devono seguire quelle politiche. Le prime servono per soddisfare i bisogni elementari, le seconde hanno la necessità di restare immutabili se si vuol progredire sulla strada dell’arricchimento come surrogato della libertà.
Questo mix di stalinismo e di maoismo è il tratto costitutivo della concezione del potere di Xi Jinping il quale non si fa scrupoli nel lanciare il neo-colonialismo apertamente, sottomettendo ampie aree del Pianeta, dall’Asia centrale all’Africa, utilizzando principalmente in modo spregiudicato la tecnologia, quando i comunisti di una volta, ipocritamente perseguendo lo stesso fine lanciavano la parola d’ordine della “liberazione dei popoli” dal giogo del capitalismo. Un giochetto che a Xi Jinping non piace per niente, come non piaceva al suo mentore, da Deng Xiaoping a Jiang Zemin a Hu Jintao, fautori dell’economia socialista di mercato, un ritrovato efficace per giustificare la repressione e l’arricchimento nelle cui pieghe, senza un controllo libero, può facilmente prosperare la corruzione.
Ad essa Xi Jinping si è opposto, soprattutto quando dominava la scena a Shanghai; demolì la banda e l’affarismo di Bo Xilai, della sua famiglia, dei suoi adepti che sognavano un neo-maoismo non tanto come nostalgia romantica di un ideologismo glorioso, quanto per contrapporsi agli attuali detentori del potere che si aprivano all’Occidente dove lui, Xilai, teneva ben salde posizioni di potere economico, perfino in Costa Azzurra: la celebrazione del capital-comunismo più come follia che come eresia.
Ed eretico è stato pure considerato Xi Jinping quando, attraverso sotterfugi politico-diplomatici, avallati dall’amministrazione americana, è riuscito a far entrare la figlia nel prestigioso college di Harvard, tempio del liberal- liberismo. Contraddizioni del potere assoluto? Forse strategie ben studiate.
E nel complesso strategico di Xi, osserva Sangiuliano, rientra la nozione – poi recepita con molti altri suoi documenti, quasi discorsi, in Costituzione, in occasione dell’ultimo congresso del Pcc, – di “sviluppo scientifico e società socialista armoniosa”. È la sintesi della concezione della potenza, l’emanazione di una nuova luce sempre comunista, ma talmente abbagliante da accecare il maoismo i cui pilastri lo sviluppo economico e tecnologico più che le teorizzazioni ideologiche hanno prima scalfito e poi abbattuto.
La visione di Xi Jinping è sintetizzata in una sua frase che vale a far comprendere l’illiberalità del sistema compatibile, più con espedienti retorici e considerazioni di potere, con una globalizzazione che perfino l’Occidente può accettare: “Cercare il terreno comune pur mantenendo le differenze”. Sembra di udire echi confuciani nel discorso pubblico di Xi Jinping; e naturalmente c’è anche questo, senza forzature. Tutto si deve tenere, tranne la messa in discussione del primato comunista legato allo sviluppo economico. L’imperial-comunismo è l’orizzonte cinese del nuovo secolo, quello che qualcuno ha chiamato il “secolo asiatico”.
FONDAMENTI DEL NEO-IMPERIALISMO
Quando il monarca, nel corso del congresso che lo consacrerà, richiama l’attenzione sulla tradizione storica e culturale cinese, chi sa intendere comprende che non c’è via di ritorno al neo-imperialismo cinese: “La nostra nazione – dice Xi – è una grande nazione. Durante il processo di civilizzazione e sviluppo di oltre 5000 anni, la nazione cinese ha dato un contributo indelebile alla civiltà e al progresso dell’umanità. Comunismo, nazionalismo e leninismo stanno insieme “armonicamente”. Forse un pizzico di stalinismo non guasterebbe, considerando che il più grande nazional-comunista della storia è stato il “piccolo padre”, il mitico “nazionalista georgiano”.
In un documento inviato alle più alte gerarchie del partito, Xi Jinping indica i “sette pericoli” ai quali sarebbe esposta la società cinese. È la denuncia della cultura occidentale e dunque l’irriducibilità di quella asiatica, nella declinazione cinese, a ciò che si identifica con l’Ovest del mondo, si tratta del neoliberismo, dei valori universali non negoziabili, dei diritti umani, della democrazia costituzionale occidentale, della promozione della partecipazione alla vita sociale, dell’indipendenza dei media, delle critiche nichiliste al passato del partito. “Quest’ultimo – scrive Sangiuliano – costituisce un punto di svolta perché segna la volontà di mettere a tacere le critiche, iniziate all’epoca di Deng, e proseguite sotto Jiang Zemin e Hu Jintao, al maoismo e alle degenerazioni della Rivoluzione culturale”.
Insomma, da vero comunista, Xi Jinping assume tutto l’armamentario comunista per coniugarlo con la modernizzazione economica. Non può e non deve essere discontinuità, anche se lui ha attraversato, come suo padre, i gironi infernali del maoismo. “Il richiamo forte – osserva Sangiuliano – all’identità cinese, a un nuovo nazionalismo che combini i fasti della tradizione imperiale con le conquiste della modernità, è il primo tassello della narrazione ideologica di Xi Jinping”. È difficile credere che il secondo non sia la riconquista di un antico impero senza confine, come narrano i guerrieri sepolti per secoli a Xian, una delle grandi capitali dove la storia cinese è divenuta leggenda.
Per il “nuovo Timoniere” è incominciato il secolo del “sogno cinese”. L’obiettivo è far diventare la Cina prima potenza del pianeta, secondo le teorie di Liu Mingfu, autore del libro nazionalista China dream, The Great Power Thinking e posizionamento strategico della Cina nell’era post-americana; il colonnello, riferimento di Xi, sostiene che la Cina dovrebbe spodestare gli Stati Uniti come leader mondiale e avanza l’ipotesi che la Cina perseguendo l’”ascesa militare” le consentirà di competere e quindi superare il ruolo dell’America come fonte di ordine globale, in una competizione tra civiltà.
Rinascita nazionale, primato economico-tecnologico, neo-espansionismo senza confini: Xi Jinping è un mito per la Cina, molto più di Mao, ormai. Ma un pericolo per l’umanità. A Hong Kong se ne sono accorti. E altrove? Taiwan trema, il Giappone non dorme sonni tranquilli e perfino l’alleata Corea del Nord valuta la minaccia dell’ambizioso amico. Ma la Cina, a guardar bene, amici non ne ha. Ha vassalli, come i suoi antichi imperatori che rinascono nei sogni comunisti come paradossi della storia.