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Cina e 5G, se anche Johnson dà retta a Trump su Huawei

La pressione diplomatica americana su Huawei sembra portare frutti. Ieri il premier inglese uscente, Boris Johnson, ha espresso dubbi sull’opportunità che la Gran Bretagna consenta a Huawei di investire nella rete 5G nel Regno Unito, perché potrebbe “pregiudicare” le relazioni nel campo dell’intelligence dell’alleanza Five Eyes (il gruppo di paesi anglofoni, Usa, UK, Australia, Nuova Zelanda, Canada, che ha una ferrea condivisione di intel). L’azienda di Shenzen è diventata l’elemento simbolico di un tema mastodontico: il 5G e i rischi che – secondo gli Usa – potrebbe comportare l’affidamento a ditte cinesi la gestione delle infrastrutture tecnologiche che muoveranno i pacchetti di dati mobili.

Washington invita da tempo gli alleati a pensare bene a chi verranno affidati i contratti e a valutarne il contesto politico di provenienza – una posizione inserita di recente nel documento conclusivo della ministeriale sulla Telecomunicazioni del Consiglio dell’Ue, anticipato da una lettera aperta infuocata con cui il segretario di Stato americano spiegava per filo e per segno i rischi legati alla Cina. Sostanzialmente la preoccupazione americana riguarda le attività di intelligence che aziende come Huawei o Zte potrebbero permettere al governo cinese lasciando porte aperte all’interno delle proprie reti. Questo secondo il monito statunitense potrebbe pregiudicare la condivisione di informazioni tra gli Usa e gli alleati cablati dalla Cina. La Huawei ha sempre smentito battendo sulla propria serietà ed è arrivata addirittura a denunciare il governo americano per danno di immagine.

Oggi anche il Guardian – un giornale non certo vicino al premier Johnson – ha in prima pagina un articolo importante sul tema; tre colonne a firma di Rowen Mason (vice caporedattrice politica del giornale liberal inglese) su una linea piuttosto neutra, quasi a sottolineare i dubbi del primo ministro. Conferma che “Cina più 5G” è un tema caldo anche a Londra. E non sfugge che l’uscita segua il vertice con cui la Nato ha festeggiato a Watford i suoi 70 anni (con un tema di sottofondo: la Cina è una rivale dell’alleanza?).

Le dichiarazioni di Johnson arrivano dopo gli incontri di mercoledì. “Non voglio che questo Paese sia ostile agli investimenti dall’estero. D’altra parte – dice il premier – non possiamo pregiudicare i nostri vitali interessi di sicurezza nazionale né possiamo pregiudicare la nostra capacità di cooperare con altri partner di sicurezza di Five Eyes. Questo sarà il criterio chiave che forma la nostra decisione”.

BoJo centra nel pieno la questione per come è vista da Washington – e non è un caso, vista la condizione del Regno Unito post-Brexit e la necessità di trovare un partner oltreoceano. Esporsi alla Cina, farla penetrare all’interno delle proprie infrastrutture – tlc e non solo – potrebbe significare l’esclusione dalla rete di condivisione di informazioni di intelligence coordinata dagli Usa. Ovvero l’esclusione dal sistema di cooperazione che ha creato l’Occidente per come lo conosciamo. La questione, dunque, non è solo economico-commerciale, è anzitutto politica.

D’altronde è stato lo stesso Donald Trump, al vertice Nato, a spiegare che Huawei nel 5G è un “pericolo per la sicurezza”. Il presidente ha assicurato che nessun Paese alleato andrà avanti con la contrattualizzazione della ditta cinese – “Ho parlato anche con l’Italia e mi hanno assicurato che non lo faranno”, ha detto senza essere per ora smentito. Nel suo pezzo, Mason fa notare che le parole di Johnson sembrano segnare un momento: ora le pressioni statunitensi si sono fatte più nette e dunque convincenti. Forse è per questo che stanno producendo effetti?

Londra avrebbe dovuto annunciare una decisione su Huawei in autunno, ma non lo ha fatto (secondo rumors per via della convocazione delle elezioni la vicenda è stata congelata per il prossimo esecutivo). Mesi fa era sembrata sul punto di far accedere la società cinese ad aree del 5G non sensibili, ma la decisione avrebbe fatto infuriare la Casa Bianca ed è stata revocata. Ieri Johnson è sembrato più propenso a una chiusura, simile a quella che impongono gli Stati Uniti, ma la scelta definitiva per ora non è stata resa pubblica.

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