Secondo la più aggiornata delle inchieste giornalistiche sulla repressione con cui il governo ha risposto alle recenti proteste in Iran, i morti sarebbero oltre millecinquecento. Un dato però non verificabile perché il regime teocratico come primissima mossa davanti alle dimostrazioni ha chiuso internet. Ossia ha cercato di impedire che dall’esterno si potesse osservare la situazione. Per assurdo potrebbero essere anche di più.
L’inchiesta di cui si parla è stata firmata dai reporter della Reuters e cita funzionari del ministero dell’Interno che raccontano in forma anonima: la Guida suprema, Ali Khamenei, ha dato l’ordine e di “fare tutto il necessario”. Sarebbe stato lui in persona a condurre una riunione con i vertici della sicurezza convocata nei primi giorni delle manifestazioni, e vi avrebbe partecipato anche il presidente Hassan Rouhani. Di questo “intervento tempestivo” senza il quale “sarebbe stato impossibile salvare il Paese”, sono stati funzionari della sfera teocratica del potere a parlarne pubblicamente — e a costruirci propaganda attorno. Dunque è un dato indubbio.
Il presidente invece ha visto il suo ruolo marginalizzato. Rouhani è considerato espressione di un governo moderato e dialogante, quello che ha portato Teheran all’accordo con la Comunità internazionale sul congelamento del programma nucleare nel 2015, ma — sebbene abbia ricevuto il consenso popolare per il secondo mandato — al momento ha le mani legate. L’accordo doveva essere occasione di rilancio, doveva permettere di ripulire il profilo iraniano sul mercato globale e, con l’eliminazione delle (tante) sanzioni, dare alla Repubblica islamica una rinnovata prosperità.
Ma il contesto generale è stato gravato da un comportamento ambiguo: la Guida aveva accettato la traiettoria di apertura promossa da Rouhani, ma contemporaneamente ha spinto un piano di penetrazione all’interno di vari Paesi della regione per aumentare la propria influenza — attraverso l’appoggio di partiti/milizia con cui ha creato rapporti mescolando ideologia e interessi. Un piano considerato ostile dagli Stati Uniti. Per questa mancanza di spirito, e perché gli alleati Usa (come Israele e Paesi del Golfo) considerano questa penetrazione un problema strategico, l’amministrazione Trump s’è ritirata dall’accordo sul nucleare riattivando l’intera panoplia sanzionatoria contro Teheran.
Il ritiro degli Usa dal deal è una sconfitta politica per Rouhani che aveva costruito l’accordo con gli americani e chiedeva agli iraniani — per primo ai falchi della teocrazia, dove si annidano le posizioni più reazionarie — di accettare il compromesso in cambio di benessere. La riattivazione delle sanzioni, e l’incapacità degli altri Paesi parte dell’intesa di reagire, hanno dato forza ai critici anti-governativi — la linea dura iraniana, quella khomeinista che vede nell’ordine mondiale occidentale un nemico da combattere.
È questo il contesto da cui nasce la repressione sulle proteste. Dimostrazioni scatenate il 15 novembre dall’aumento inaspettato della benzina e infiammate dal malcontento generale per la situazione economica. Molti manifestanti hanno contestato la linea della Guida, l’ambizione di agire da grande potenza regionale, privilegiando questo slancio al benessere dei propri cittadini. Una situazione che ha per altro portato i Pasdaran, menti e vettori della strategia — a essere uno Stato nello Stato e costruito un contesto corrotto e clienterale. Sono le stesse problematiche che starebbero alla base del (semi)isolamento in cui gli Stati Uniti stanno cercando di far tornare l’Iran.
Tant’è che ha sposato le richieste dei manifestanti, non senza rischi di sembrare parte coinvolta. Non a caso, quando il Supremo Consiglio di difesa iraniano ha smentito l’inchiesta Reuters, l’ha definita “falsa propaganda” inventata dall’America, che secondo la narrazione iraniana avrebbe creato le proteste per destabilizzare il Paese. Difficile crederci certamente, anche perché dopo le prime settimane di bavaglio completo Teheran ha dovuto riaccendere parzialmente Internet e subito hanno iniziato a circolare video in cui si vedono i militari sparare sulla folla.
Ma la lettura è ad uso interno. Rouhani ha dovuto accettare che la gestione della crisi fosse affidata ai Pasdaran, i soldati della Guida. Era stretto dalle circostanze e in una fase delicatissima del braccio di ferro sull’accordo — che dopo lo scombussolamento legato all’uscita Usa è sul punto di franare — ha dovuto cedere.