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La Camera Usa chiede a Trump di sanzionare la Cina per lo Xinjiang

Lo scontro sul terreno dei diritti tra Stati Uniti e Cina sale ancora di tono. La Camera statunitense — sotto il controllo dei Democratici — ha votato quasi unanime (406 a 1) una legge che chiede alla Casa Bianca di imporre sanzioni contro il Partito Comunista cinese per la campagna di internamento nello Xinjiang. Una regione in cui Pechino ha avviato un piano per la sicurezza drastico che è stato da più parti — anche da apparati amministrativi di Washington, per esempio il dipartimento di Stato — denunciato come un piano di rieducazione di massa contro i cittadini uiguri e altre etnie musulmane. Abitanti scomodi per la Cina, che occupano un’area nevralgica per la Nuova Via della Seta e che in alcuni casi in passato hanno fatto segnare episodi di radicalizzazione e insorgenza.

A Pechino serve trasformarli in “bravi cinesi”, e per questo una grossa quantità (circa un milione) di loro sono già stati rinchiusi in campi di confinamento in cui vengono rieducati attraverso una sorta di lavaggio del cervello. Le accuse riguardano anche il modo con cui le persone dello Xinjiang vengono internate, usando metodi di polizia predittiva, ossia incrociando dati con algoritmi di intelligenza artificiale che si basano non sui reali crimini commessi, ma su potenzialità. Nei campi ci finiscono dunque anche persone innocenti, la cui unica colpa è essere un uiguro e appartenere a una certa fascia di età o avere interessi considerati potenzialmente rischioso.

L’Uygurs Human Rights Act approvato dalla Camera ruota attorno a questo, chiedendo al capo della più importante democrazia del mondo, attualmente Donald Trump, di tener fede a un impegno valoriale simbolico — il rispetto dei diritti, umani, civili, eccetera — e di punire i cinesi responsabili di questa pulizia etnica rieducativa nello Xinjiang. Il provvedimento è già passato al Senato, ma ha ricevuto un successivo inasprimento forse visto anche il recente clamore sulla questione scatenato da alcune rivelazioni giornalistiche che passano sotto il nome di Xinjiang Papers. Documenti interni al Partito, che dimostrano come lo stesso segretario, il capo dello stato Xi Jinping, fosse in testa al progetto dittatoriale.

Situazione su cui c’è stato seguito tra l’opinione pubblica tanto quanto per la crisi di Hong Kong, le rivendicazioni di carattere democratico di larga parte della popolazione contro la cinesizzazione pressante di Pechino. E anche su questo il Congresso, intervenuto in forma bipartisan, ha già spinto la Casa Bianca alla firma su un atto di legge a favore dei diritti umani degli hongkonghesi e delle istanze dei manifestanti. I parlamentari, sfruttando una vecchia legge che garantisce lo status economico speciale per Hong Kong nei rapporti con la Cina, hanno messo in forma normativa l’eventuale sospensione della condizione se la Cina dovesse intervenire militarmente contro le proteste, oppure se Pechino dovesse spingere legislazioni che erodono troppo rapidamente lo schema “un paese, due sistemi” che garantisce un minimo di autonomia al Porto Profumato.

Gli apparati statunitensi, il Congresso e il dipartimento di Stato su tutti, stanno spostando il confronto globale con la Cina su temi che riguardano il rispetto dei diritti umani. Un terreno indiscutibile, su cui Trump è costretto a seguire sopra ogni volontà di accordo commerciale. È un vettore di scontro importante, che ha già prodotto azioni di rappresaglia da parte di Pechino. I cinesi detestano che si parli di certe situazioni interne che stridono clamorosamente con l’evoluzione che Xi sta imponendo al Paese di cui sarà presidente a vita, impegnato in una corsa economica inarrestabile contro gli Stati Uniti per salire in cima al mondo.

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