Il Memorandum of Understanding per la cooperazione marittima tra la Turchia e la Libia del Governo di accordo nazionale, diretta da Fayez al Serraj, è stato votato definitivamente dal Parlamento turco il 5 dicembre scorso. Khalid al Mishri, presidente del Consiglio presidenziale di Tripoli, ha inoltre affermato ufficialmente che il MoU turco-libico è del tutto coerente con la lettera degli Accordi di Skhirat del 2017, che regolano i rapporti tra Tripoli e la Cirenaica, del 2015 e poi del 2017.
Questa nota non è inutile perché, lo vedremo, l’Egitto contesta anche la modalità politica con cui si è arrivati al MoU turco-libico e alla sua legittimità rispetto agli accordi internazionali che definiscono proprio la nascita e le funzioni del Governo di accordo nazionale libico di al Serraj.
La collaborazione tra Ankara e Tripoli prevede, oltre alle questioni economiche, di cui faremo una specifica analisi in seguito, anche la possibilità di un impegno diretto delle FF.AA. turche “a semplice richiesta” del governo di Tripoli. I turchi, beninteso, erano già ben presenti, con le loro imprese, fin dai tempi di Gheddafi, con degli investimenti, da parte di Ankara, di oltre 26 milioni di Usd, diretti soprattutto verso il settore immobiliare. La fine del regime gheddafiano ha diminuito l’interesse turco per la Libia, come è facilmente intuibile, ma continuarono i rapporti bilaterali tra Tripoli e Ankara, anche con il contratto, a una ditta turca, per ampliare la strada costiera di Tripoli e molte ricostruzioni di immobili, sempre da parte del Governo di accordo nazionale di al Serraj.
Sul piano militare, Ankara ha sostenuto finora Tripoli (e non solo la Fratellanza Musulmana, che fa parte del governo di al Serraj) con droni, istruttori dei Servizi e pezzi di artiglieria. Sul piano economico, comunque, le due ZEE, Zone Economiche Esclusive, quella turca e la libica, confinano tra di loro e, quindi, Erdogan ha parlato di esplorazioni petrolifere congiunte e di azioni di controllo marittimo comuni tra la Libia di Tripoli e Turchia. Il che significa, nemmeno troppo tra le righe, eliminare dal Mediterraneo centrale e orientale la Grecia, la Cipro greca, l’Egitto (che sostiene il generale Haftar della Cirenaica) e, infine, Israele.
Per non parlare dell’Italia, alla quale sarebbe interdetta una buona parte delle linee navali e anche dei collegamenti petroliferi e sottomarini tra la Sicilia e le coste libiche. Per molto meno, il governo Craxi e il ministro delle finanze di allora, Franco Reviglio, ordinarono al Sismi dello straordinario ammiraglio Martini di “controllare” gli sviluppi della crisi tunisina e di mettere al governo di Tunisi il nostro uomo, Ben Alì, contro il candidato dei Servizi francesi, che rifiutarono sdegnosi ogni sostegno. Ma vincemmo noi.
Naturalmente, Ankara non ha molto interesse alla specifica sopravvivenza del Governo di accordo nazionale di al Serraj, ma intende utilizzare questi accordi come un precedente vincolante per tutta la Libia, chiunque comandi a Tripoli come a Bengasi. Quanto può resistere al Serraj ad una avanzata militare di Khalifa Haftar? Poco, certamente, soprattutto per il fatto che le forze dei contractor russi della Wagner operano a fianco, con armi e tecniche evolute, dell’Esercito di Bengasi. Senza un intervento internazionale a suo favore, che peraltro spaccherebbe ancora di più in due la Libia, al Serraj non è destinato a durare a lungo. Ma, a parte la Turchia, Tripoli non ha amici che sappiano valutare la machiavelliana “realtà effettuale della cosa”.
I contractor russi della Wagner sono circa 1000, operano oggi nell’area orientale e occidentale della Libia, nella zona controllata unicamente dalle Forze di Haftar; e questo porterà certamente ad una nuova escalation del conflitto e a una sua polarizzazione: gli occidentali, più o meno sciocchi, con al Serraj e Tripoli, ma tutti gli altri (Turchia, secondo esercito Nato, gli Emirati Arabi Uniti, l’Egitto, il Qatar, che si sta riavvicinando ai sauditi) dalla parte di Haftar, per riconquistare il primo deposito di petrolio dell’Africa e il porto di accesso quasi immediato alla Ue.
La Conferenza di Berlino sulla Libia è prevista per il 2020, le chiacchiere delle cancellerie europee per una “soluzione pacifica” sono giornaliere, le idee dei Paesi Ue che, peraltro, operano ancora in Libia sono inesistenti, salvo il business as usual e il rifiuto semplicistico e puramente elettorale di impelagarsi nel caos libico. Se ciò accadesse, peraltro, alcuni Paesi europei dovrebbero sedare tensioni sociali e, in qualche caso, economiche, tali da far saltare tutti i loro governi. Oggi, la Germania è militarmente inesistente, la Francia appena un po’ meglio, l’Italia non ne parliamo. Se l’ignavia onusiana e l’istupidimento europeo permangono, e non c’è motivo di pensarla diversamente, Haftar è dunque destinato alla vittoria.
Ma quale potrebbe essere il vero osso duro contro Haftar, nella sua marcia trionfale verso Ovest e la Tripolitania?
Non certo le milizie ufficiali del Governo di accordo nazionale, o le altre “brigate” locali favorevoli a al Serraj, ma ormai unicamente le milizie di Misurata. Che difendono Al Serraj ma lo tengono anche in pugno.
Le milizie di Misurata sono comandate dal vice attuale di Al Serraj, Ahmed Maitig, e tutte le milizie e le brigate sopravvivono con i loro commerci illeciti: le migrazioni illegittime dalla Libia partono, infatti, dalle spiagge di Misurata e di Gasr Garabulli, con i trafficanti di uomini che pagano la loro quota a quelli di Miurata, mentre le altre 300 milizie si sono dedicate a varie attività, sempre illegali: il contrabbando di petroli, i rapimenti, il riciclaggio di denaro sporco, le più tradizionali rapine.
Ma è ancora il petrolio il business del futuro, in Libia, visto che il Paese africano possiede ancora riserve di petrolio per 48,4 miliardi di barili, un livello che pone ancora la Libia al primo posto tra i Paesi petroliferi africani. Le milizie di Zintan, poi, la seconda grande organizzazione militante libica per dimensioni, sono quelle che hanno ucciso Gheddafi, grazie alle armi francesi lanciate loro sul Gebel Nafusa. Sconfitte successivamente nel 2014, in una guerra per il predominio economico sui traffici tripolitani, da “Alba Libica”, si sono riavvicinate ad Haftar.
Gli Usa, poi, con il loro African Command, hanno ancora una base di appoggio, per l’intelligence e le operazioni speciali, a Bengasi. Ma, oggi, il comando continentale africano Usa si sta allontanando da tutti gli scenari libici ed è presente, ormai, solo ai confini Est e Sud di Tripolitania e Cirenaica.
Haftar ha una forza di circa 2500 uomini, ex-membri delle Forze regolari di Gheddafi e delle Saiqa, le forze speciali gheddafiane. Dalla parte di Al Serraj, ci sono, oltre le truppe di Misurata, la Rada Special Force, 1500 uomini con funzioni soprattutto di Polizia e infine la brigata Nawasi, 700 elementi, tutti islamisti, per usare la sciocca terminologia occidentale, “radicali”. Dalla parte di Haftar ci sono anche milizie provenienti dal Ciad (1000 elementi) e dal Darfur (500 uomini).
Maitig, il capo delle Milizie di Misurata, si è recentemente recato in Francia, per ricucire i rapporti tra Parigi, aperta sostenitrice di Haftar, e il governo del Gna di Tripoli.
Naturalmente, in quel momento l’Italia dormiva. Già, l’Italia, il Paese che non ha più una qualche politica estera ormai da diversi anni. Al vertice Nato di Londra della fine di novembre l’Italia è stata esclusa dall’incontro sulla Libia. Naturalmente, il governo Conte 2 dice che tutto ciò non è importante ma, ovviamente questa è una povera bugia. Dopo la Brexit, l’Italia rimane un polo inevitabile per il dialogo transatlantico della Ue.
Il protocollo d’intesa del 28 novembre 2019 tra Ankara e Tripoli, economico più che militare, è comunque una longa manus turca in Libia che sarà molto difficile ridurre. La fantozziana geopolitica dell’Italia attuale, certamente, si adatterà masochisticamente a sostenere anche i suoi avversari, come finora è accaduto, in Libia e altrove. È inoltre molto probabile che la Turchia possa creare un mercato ricattatorio dell’immigrazione clandestina anche in Libia, come ha già fatto al confine turco-siriano e per bloccare la “rotta balcanica” dei migranti irregolari verso i confini austriaci e tedeschi.
La “presa di Tripoli” da parte di Haftar, quindi, come sostengono molti tra gli analisti più attenti, potrebbe innescare un nuovo grande conflitto libico, non certo sedare quello attuale. E come vanno oggi gli accordi italiani con uno o l’altro dei governi libici? Vediamo.
Il 12 marzo 2019 è stato siglato l’accordo tra Federpesca e la Libyan Investment Authority di Bengasi atto a consentire, a un numero prefissato di pescherecci italiani tutti con sede a Mazara del Vallo, di pescare in acque libiche. In tutte le acque libiche. L’accordo è diventato operativo il 15 luglio del 2019. Ma è stato ritenuto illegale dal governo di al Serraj, che pensa sia, l’accordo tra Federpesca e l’agenzia del governo di Tobruk, contrario agli accordi di Skhirat e alle successive norme dell’Onu sulla questione libica. Sempre per l’art.8 del trattato e degli accordi di Skhirat.
La Libia, comunque, ritiene il Golfo della Sirte, in quanto “baia storica”, sia integralmente sotto la propria sovranità; una pretesa finora contrastata dagli Usa, dall’Italia e da tutti gli altri membri della Ue. Il significato strategico di questa contesa è evidente e non merita particolari annotazioni. Nel 2005 la Libia ha proclamato una zona di protezione della pesca di 62 miglia marine a partire dalla linea di chiusura del Golfo della Sirte, che è sotto la linea mediana con l’Italia e, quindi, non si presta a contestazioni di sorta.
Nel 2009, poi, la Libia, ancora quindi sotto Gheddafi, ha ulteriormente proclamato una ZEE che consente allo stato libico la completa utilizzazione di tutte le risorse naturali presenti nella ZEE, comprese quelle ittiche. L’estensione di questa ZEE libica non era però definita, lasciando il diritto formale alle consuetudini e a eventuali accordi bilaterali con gli Stati adiacenti e vicini. Ankara, invece, non aveva ancora una vera e propria ZEE, salvo quella delimitata autonomamente con la Repubblica turca di Cipro del Nord. In linea di principio, però, la ZEE libica ha una estensione di 200 miglia come tutte le altre e, quindi, c’è necessità di uno specifico accordo con l’Italia. Per la pesca e per tutto il resto.
Nel 2018 la Libia ha delimitato anche la sua zona SAR, Search and Rescue. Malta ha una zona SAR molto grande, che si sovrappone in due vaste aree a quella italiana e confina direttamente con la SAR libica, proprio sulla linea di chiusura del Golfo della Sirte. La Libia, ricordiamolo, non ha mai ratificato la Convenzione del Mare Onu, e fa allora riferimento solo al diritto consuetudinario in materia.
Ma l’accordo recente tra al Serraj e Ankara cambia tutte le carte in tavola.
L’Egitto, in seguito alla nuova zona ZEE turco-libica, ha fatto ricorso all’art. 8 dell’accordo di Skhirat, in cui si dice che “il governo libico o il gabinetto, non il primo ministro, hanno l’autorità per firmare gli accordi internazionali”. Il memorandum bilaterale turco-libico stabilisce inoltre 18,6 miglia nautiche di una piattaforma continentale e una linea di confine della Zona Economica Esclusiva tra Libia e Turchia.
La Cipro greca ha concluso accordi, precedenti a questo tra Ankara e Tripoli, con Libano e Egitto, per la delimitazione di aree marittime che, oggi, sono di primario interesse estrattivo per il gas e il petrolio. La Grecia fa notare, comunque, che la Libia, con questo ridisegno delle ZEE, recupera ben 39.000 chilometri quadri della ZEE, che prima erano detenuti da Atene. La Grecia, in effetti, voleva sfruttare le condizioni critiche della Libia per avere un’area ZEE dalla superficie grande quattro volte il Libano. Ma, dopo questo MoU tra Tripoli e Ankara, le isole greche non potrebbero più godere di una piattaforma continentale e di una Zona Economica Esclusiva entro l’area di Atene. La Grecia è così separata, dal punto di vista marittimo, da Creta, Rodi, Kastellorizo e da tutte le altre isole greche del Mediterraneo orientale.
L’Egitto non è particolarmente danneggiato dal MoU libico-turco, anzi, esso può essere utilizzato, dalla diplomazia del Cairo, come un precedente per il prossimo ridisegno della ZEE egiziana verso il mare greco e le isole greche sud-orientali. Ma Al-Sisi, che non è un ingenuo, ha dichiarato di rinunciare ai suoi diritti ZEE sul mare greco e sulla Cipro greca, in cambio, naturalmente, di un sostegno internazionale da parte di Atene e, indirettamente, dell’Italia. Erdogan ha poi dichiarato, all’inizio del dicembre 2019, che non fermerà mai le sue prospezioni marine per la scoperta di idrocarburi davanti a Cipro e, soprattutto, davanti alla ZEE cipriota nella Cipro turca, lo stato etnico di origine, appunto, turca, dichiaratosi indipendente nel 1983 e costituitosi dopo l’invasione turca del 1974. La Turchia, poi, non ha dichiarato i criteri tramite i quali sono state delimitate le acque turco-libiche definite dal MoU bilaterale.
La Libia di Al Serraj ha delimitato la propria ZEE e SAR, come è noto, in un’area vasta che, quando Gheddafi la dichiarò nel 1986, gli causò il primo bombardamento Usa. La Turchia, finora, ha giocato di rimando per contrastare l’attivismo di Cipro, che ha già definito la propria ZEE con l’Egitto (2003) il Libano (2007) e Israele, nel 2010. I danni della nuova ZEE libico-turca li paga, oltre che la Grecia, Cipro, visto che la nuova ZEE bilaterale, che fronteggia le coste della Cirenaica e le acque territoriali di Rodi e Scarpanto, va dal promontorio ad ovest di Antalya al tratto di costa libica che va dal confine cirenaico con l’Egitto fino a Derna. All’interno della nuova ZEE si trova, lo abbiamo visto, anche l’isola di Kastellorizo.
Il governo italiano ha deciso, in questo contesto, la geopolitica di San Filippo Neri: state buoni se potete, favorendo il buon diritto di Cipro ma sperando, non sappiamo su quale base, in un atteggiamento turco più “costruttivo”. È vero il contrario, è quello turco l’atteggiamento davvero costruttivo, mentre la politica estera italiana, qualora sia dimostrato scientificamente che esiste, è puro flatus vocis. La Marina Militare Italiana, comunque, ha inviato la fregata “Federico Martinengo” in una operazione di pattugliamento nel Mediterraneo Orientale.
Certo, la presenza turca nelle acque già territoriali libiche presuppone una possibile trasformazione del conflitto infra-libico, visto che la nuova ZEE presuppone l’invio, su richiesta del governo di Al Serraj, “di tutte le truppe turche che verranno richieste da Tripoli”. C’è anche la possibilità, appena percepita nei documenti internazionali, di una presenza di truppe dei Servizi e di operatori dell’intelligence israeliana durante le azioni del Gna di Haftar contro Tripoli.
Haftar, peraltro, nemmeno si è scusato con l’Italia per il drone, un Reaper del 32° Stormo dell’Aviazione Militare Italiana, abbattuto dalle sue truppe il 20 novembre scorso vicino a Tarhouna, ma si è subito scusato con Washington per l’abbattimento del Reaper MQ9 a pochi chilometri da Tripoli.
Quindi, assistiamo all’entrata nel campo militare libico della Turchia, che sostiene al-Serraj e l’islamismo dei Fratelli Musulmani che lo mantiene al governo, quello che gli occidentali chiamano “moderato”. Poi vedremo l’ascensione agli estremi dello scontro tra Tripoli e Haftar, grazie anche alle possibili operazioni marittime turche in Cirenaica, poi ancora espulsione immediata e assoluta dell’Italia e dei suoi interessi dal quadrante libico, il riposizionamento degli Usa e, forse, di Israele in un accordo, che immaginiamo più ampio del solo sistema libico, con Turchia, Russia, Egitto e, magari, Arabia Saudita, gli Stati che sostengono le forze di Haftar e il governo corrispondente di Abdullah al Thani.
E l’Italia? Niente, naturalmente.