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Tripoli preferisce le armi turche alla diplomazia europea?

Alcuni leader politici dell’ala più oltranzista della Tripolitania hanno chiesto ai cittadini libici di organizzare proteste in strada a Tripoli e altrove contro l’iniziativa diplomatica con cui l’Europa vorrebbe riagganciare la crisi. La missione Ue, proposta (dopo un tour est-ovest in Libia) dal ministro degli Esteri italiano, Luigi Di Maio, si terrà il 7 gennaio, sotto la guida dell’Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione, Josep Borrell e vi dovrebbero prendere parte anche i capi della diplomazia di Francia, Germania e Gran Bretagna. “Si tratta di un importante passo avanti, ma stiamo ancora definendo alcuni dettagli. L’unica soluzione possibile alla crisi libica è politica e non militare” hanno detto all’Ansa fonti della Farnesina due giorni fa, ma oggi la percezione che arriva dalle aree della Tripolitania è bene diversa.

“Non si tratterà di certo di proteste di massa, non sono la maggioranza, ma sicuramente l’atmosfera non è per niente rilassante”, dice a Formiche.net in forma riservata una fonte che lavora nell’ambiente diplomatico nordafricano di un Paese europeo. “È un momento in cui l’Europa non viene troppo ben percepita a Tripoli, la visita è considerata come un’iniziativa lenta, e per quanto riguarda l’Italia molti ormai la guardano con freddezza”. Il quadro è ampio, una coincidenza temporale spiega bene la situazione.

Il 7 gennaio il presidente russo, Vladimir Putin si recherà a Istanbul per inaugurare il Turkish Stream, un gasdotto che parte dalla regione nord-caucasica di Krasnodar, taglia il Mar Nero e arriva nella provincia nordoccidentale turca di Kırklareli – uno di quei legami fisici che connettono i Paesi. Putin incontrerà il presidente turco Recep Tayyp Erdogan e, forse per la prima volta nei loro continui meeting, la Libia sarà un argomento in cima all’agenda. La Russia ha investito qualche contractor sul lato di Khalifa Haftar, il signore della guerra che dalla Cirenaica vuol conquistare Tripoli, e ha ottenuto un grosso ritorno in termini di peso politico. La Turchia è attualmente il più assertivo – almeno pubblicamente – dei player stranieri che ruotano attorno al dossier, ed è diventato una sorta di salvatore della Tripolitania.

Tecnicamente su due lati opposti dello schieramento, Putin ed Erdogan sembrano intenzionati a ripetere uno schema simile a quello visto in Siria – dove per il turco la partita s’è chiusa con il raggiungimento limitato degli interessi nel nord, contro i nemici curdi, mentre il russo ha ottenuto il controllo del Paese proiettandosi direttamente nel Mediterraneo. L’incontro tra il leader russo-turco è considerato per gli interessi della Libia più cruciale della visita diplomatica europea. Anche perché la Turchia ha pronto un piano: secondo una fonte da Misurata, in Libia, per contrastare Haftar sono in arrivo 1600 ribelli siriani (che Ankara controlla e muove come carne da cannone per fare il lavoro sporco) e 5000 unità regolari. Più svariati mezzi sia terrestri che navali e aerei. Il loro compito non è al momento chiarissimo, ma certamente non staranno a guardare i combattimenti. Il 7 gennaio doveva anche essere la data in cui il parlamento turco avrebbe dovuto dare l’avallo formale all’invio del contingente in Libia – che segue un accordo di cooperazione firmato il 27 novembre tra i due Paesi – ma Erdogan ha spostato la votazione a giovedì 2, in modo di anticipare le mosse dell’Ue.

A Tripoli come a Misurata, centro della protezione politica e militare del governo che l’Onu ha impostato nella capitale, il peso della guerra si inizia a sentire. Molto sui civili. Ieri una donna che abitava vicino all’aeroporto Mitiga della capitale è stata uccisa nel giardino di casa perché un bombardamento haftariano ha sbagliato bersaglio. Dal cielo il signore della Cirenaica è aiutato da droni emiratini e piloti egiziani. I libici delle Tripolitania dicono di voler la pace, ma sanno perfettamente che per arrivare a negoziare un cessate il fuoco devono riuscire a imporre la forza contro l’attacco di Haftar. Sull’altro lato vale lo stesso principio: il capo miliziano dell’Est, ma sopratutto i suoi sponsor esterni sarebbero pronti a sedersi a un tavolo per negoziare qualcosa, ma intendono farlo da una posizione di forza che passa anche dalle conquiste territoriali a Ovest.

Da Bruxelles fino a ogni cancelleria europea non si fa che ripetere che la soluzione non può essere militare, l’Onu ricorda con insistenza che sulla Libia vige un embargo, ma in questo momento l’offerta militare che la Turchia – non senza interessi – sta dando a Tripoli, abbinata alla capacità di contatto tra Erdogan e Putin, è considerata un game changer sostanziale. Anche per questo nella capitale si protesterà contro la delegazione Ue. L’Europa e le Nazioni Unite lavorano da mesi per costruire una conferenza di pace a Berlino, ma non è stato ancora possibile fissare una data. Le forze che rispondono al governo libico internazionalmente riconosciuto sentono il peso della campagna haftariana da quasi nove mesi. E Ankara si è inserita come attore deciso, capace di soddisfare le richieste dirette – e da qualche settimana aperte – di Tripoli. Lo stesso sull’altro fronte: Haftar non avanza, ha capacità di ricaricare gli armamenti (via Egitto ed Emirati), ma non ha la forza sul campo per sfondare il fronte a sud di Tripoli: l’aiuto dei professionisti russi è un altro elemento che può essere determinante. Quanto meno, come l’assistenza turca, rischia di esserlo stato per sposare il dossier nelle mani di un asse diverso da Europa e Onu.

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