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Dalla Luna a Marte. La nuova corsa allo Spazio di Cina e India

Di Marco Tesei

Spesso il programma spaziale di uno Stato è specchio fedele non solo della sua salute economica, ma anche della gerarchia che occupa nello scacchiere internazionale.

Ai tempi della Guerra Fredda, con l’Europa ancora impegnata a riprendersi dalle fatiche della Seconda Guerra Mondiale, gli albori dell’astronautica sono stati scanditi in maniera duopolistica dalla Nasa americana e dal programma spaziale sovietico (talmente segreto da essere lasciato senza nome e identificato soltanto dalla competizione, spesso accesa, tra i quattro progettisti principali Korolev, Jangel, Glushko e Celomei).

Col nuovo millennio e l’avvento delle economie emergenti, il nuovo slancio verso l’esplorazione spaziale arriva proprio dall’Asia. L’India, per quanto già attiva dal 1969 con un proprio programma spaziale e già lanciatore di satelliti con tecnologia proprietaria negli anni settanta, arriva sulla luna nel 2008 con la sonda Chandrayaan-1 (proprio “viaggio sulla Luna” in indiano) dimostrando l’esistenza dell’acqua sul satellite. La Cina effettua nel 2013 il terzo “atterraggio morbido” (dopo Stati Uniti ed Unione Sovietica negli anni sessanta) sulla superficie lunare con il rover Yutu (più o meno “coniglio di giada” in cinese) sganciato dalla sonda Chang’e-3 (dea cinese della Luna). Il tema dell’”atterraggio morbido” può essere considerato lo specchio del valore dei programmi spaziali, in quanto altamente sfidante da un punto di vista tecnologico e quindi capace, come vedremo, di mietere diverse vittime.

È proprio il 2019 che sta per finire – a 50 anni dall’impresa dell’Apollo 11 – l’anno della svolta che certifica il dinamismo dei paesi emergenti e viene praticamente monopolizzato da India, Cina e dalla nuova corsa alla Luna. Il 3 gennaio del 2019 il lander Yutu-2, distaccatosi dalla sonda Chang’e 4, atterra nel cratere Von Karman. Yutu-2 è il primo lander della storia ad esplorare il “dark side of the Moon” e sfrutta l’ausilio di un satellite dedicato, il Queqiao (letteralmente “ponte di gazze”: proporrei la Cina come generatore unico di nomi per programmi scientifici), appositamente progettato per fare da ponte radio e consentire la comunicazione (altrimenti impossibile) con il lato oscuro della Luna. L’11 Aprile si schianta in fase di discesa verso il Mare Serenitatis (in un punto non lontano da Apollo 15 e Luna 21) il lander Beresheet (“genesi” in ebraico), prima sonda commerciale sviluppata da SpaceIL, azienda privata no-profit israeliana.

Ancora l’India, galvanizzata dal successo di Chandrayaan1 e da Mom (da “mars orbiter mission” in inglese, o informalmente “mangalyaan” in hindi, prima sonda indiana a raggiungere l’orbita di Marte), dopo vari rinvii per motivi tecnici decide di procedere il 22 Luglio con il lancio del Chandrayaan-2, destinata a far “atterrare morbidamente” sul suolo lunare sia un lander (Vikram, dal nome Vikram Sarabhai fondatore del programma spaziale indiano) che un rover (Pragyan, in hindi “saggezza”) nei pressi del Polo Sud lunare. La missione si risolve il 6 Settembre con uno psicodramma nazionale: schianto del lander, 147 milioni di euro svaniti e lacrime in mondo visione del direttore dell’Isro (il programma spaziale indiano).

Il futuro non si distanzia molto da quanto emerso in questi ultimi anni e soprattutto nel 2019. Gli Stati Uniti pianificano il ritorno dell’uomo sulla Luna nel 2024 e l’India si propone di farlo entro il 2022; i cinesi più cauti puntano all’allunaggio dopo il 2030. Mentre il fine vita della Stazione Spaziale Internazionale ISS (primi moduli lanciati nel 1998) è previsto in una forbice tra il 2024 e il 2028, la Cina fresca di fallimento con il modulo Tiangong-1 (“tempio del Cielo”, precipitato nell’Oceano Pacifico nel 2018) lancia in orbita la Tiangong-2 e pianifica per il 2020 il lancio del primo modulo Tanhe (traduzione non pervenuta) della futura stazione spaziale cinese permanente Css.

Senza estendere troppo la panoramica introducendo le attività della Nasa, comunque di rilievo, e della Roscosmos russa (dopo la dissoluzione dell’Urss si sono meritati un nome) in declino e ormai – a dispetto della politica – impegnata in fruttuose collaborazioni con tutte le principali agenzie del mondo, che ne è dell’Esa europea?

L’Esa punta all’esplorazione del pianeta rosso nel 2030: dopo il parziale successo di ExoMars nel 2016 – l’orbiter continua a trasmettere dati mentre il lander si è schiantato al suolo: al quanto pare i problemi di atterraggio morbido valgono anche sul pianeta rosso – è previsto Mars Sample Return tra il 2020 e il 2022 e una missione umana preparatoria (non è chiaro se sia previsto allunaggio o meno) sulla Luna nel 2024. È sempre l’Esa a proporsi come driver per la futura base internazionale permanente su suolo lunare, quel “Moon Village” accolto freddamente dalla Nasa e che forse solo l’interessamento di indiani e cinesi può salvare, a testimonianza di come l’Asia dopo aver sconvolto l’economia mondiale, sia pronta a scuotere anche il futuro dell’umanità nel suo rapporto con le stelle.

 


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