Col 2019 si chiude un anno particolare per la Difesa, reso problematico da situazioni nuove che incidono, anche se non direttamente, sulla funzionalità stessa dello strumento in operazioni.
Tra queste, la condanna del generale Stano ai fini civilistici per la strage di Nassirija che conferma l’incapacità della nostra legislazione di prendere atto del mondo reale nel quale operano i militari. Con tale provvedimento, al quale si aggiungono alcune discutibili sentenze che individuano una responsabilità della Difesa per patologie a carico di alcuni militari impiegati a suo tempo in operazioni, si crea infatti una situazione surreale che getta i Comandanti nella consapevolezza che non c’è professionalità, rigore nell’adempiere i propri doveri, attenzione per i propri dipendenti che potrà scagionarli nel caso che tra qualche anno qualcuno denunci un malanno imputabile anche solo in termini di possibilità teorica al periodo trascorso alle loro dipendenze. Da qui all’adozione di provvedimenti di autotutela formale che vincolino la loro incisività in operazioni il passo è brevissimo.
Detto questo, il 2019 è stato anche l’anno nel quale era stato annunciato un cambio di gravitazione per concentrare le nostre attenzioni militari sullo scacchiere afro-mediterraneo. Un disegno teoricamente razionale, che vorrebbe tenere conto delle nostre priorità immediate in termini di sicurezza ma che non considera le dimensioni dei nostri contingenti, già ridotti all’osso.
Così è, infatti, per l’Afghanistan, dove opera uno striminzito contingente di 800 uomini che non può essere ridotto ulteriormente senza incidere drasticamente sulla sua sicurezza e sulla possibilità di assolvere ai compiti di mentoring a favore delle Forze Afghane ai quali è destinato.
Analogamente, non siamo in condizioni di ridurre il nostro impegno in Iraq e nella regione autonoma del Kurdistan Irakeno se non rinunciando a esercitare una seppur minima influenza in un teatro importante, nel quale si sta strutturando una realtà curda per la quale abbiamo investito a lungo. Inoltre, le componenti impiegate per il mentoring alle forze curdo irakene e per l’attività di ISR a carico della nostra componente aerea in Kuwait non dovrebbero essere rimosse anche a causa della presenza tutt’ora confermata di almeno 5mila combattenti di Daesh in zona.
In Libano, infine, non è opportuno ritoccare un contingente che è importante soprattutto ora, con un’ennesima crisi istituzionale che potrebbe rimescolare le carte, a causa delle dimissioni del primo ministro sunnita Hariri, da sempre ritenuto colpevole da parte dell’Arabia Saudita (che due anni fa l’aveva brutalmente sequestrato) di assicurare una sponda istituzionale agli sciiti libanesi con i quali era al governo. Inoltre, l’opportunità di mantenere una nostra presenza è anche giustificata dalla tigna con la quale Erdogan tende a mettersi al centro dell’area e a ribadire la sua esclusiva titolarità sul controllo di un mare che ospita fonti energetiche importanti anche per noi.
Se si esclude quindi la rimozione del presidio alla Diga di Mosul e del sistema antiaereo a Kahramanmaraş in Turchia, nel 2019 sono state limitate le risorse risparmiate, con un leggero travaso di forze in Niger, ma senza la capacità di dimostrarsi risolutivi nell’assicurare al Paese africano una significativa capacità di controllo dei propri confini con la Libia, centro delle nostre preoccupazioni. Per ottenere questo risultato, sarebbe infatti necessario spostare verso nord le sedi della nostra attività di mentoring attualmente concentrate nella capitale Niamey nell’estremo sud del Paese, con un impiego di risorse più significativo.
Per concludere, il cambio di gravitazione auspicato non si è prodotto nella sostanza, non potendosi considerare tale lo spostamento di qualche decina di uomini senza un disegno complessivo nel quale le singole operazioni vengano considerate tessere di un disegno più ampio. Insomma, è di una strategia che abbiamo bisogno, senza l’illusione che basti qualche atto di presenza estemporaneo o qualche poco compromettente operazione di mentoring e addestramento (la cosiddetta SFA) per toglierci dall’imbarazzo di fare qualcosa per noi stessi.
Ma non pare che sia questa l’idea corrente, almeno a giudicare dal tono della secca risposta negativa del ministro Di Maio alla richiesta di aiuto militare da parte di Serraj. Risposta giustificata dalla delicatezza e complicazione della situazione generale e dalla necessità di avere un dialogo anche con Haftar, ma che non ci possiamo permettere di considerare un rifiuto aprioristico dell’impegno militare “tout court”, almeno fino a quando continueremo a galleggiare al centro del Mediterraneo.