Il Senato degli Stati Uniti ha approvato ieri un provvedimento con cui sanzionare le società coinvolte nella costruzione del Nord Stream 2. Il gasdotto che dalla Russia entrerà in Germania via Mar Baltico per portare in Europa il gas russo è considerato dagli Usa un elemento strategico contrario all’interesse nazionale. Evidenza di questa considerazione: al Senato il voto di ieri ha avuto 86 favorevoli (su cento), ossia è passato con consenso bipartisan. Il provvedimento è stato inserito all’interno della maxi legge sul bilancio della difesa per il 2020, e se a Berlino credevano che i Democratici potessero avere posizioni più morbide, sono rimasti delusi.
Se la polarizzatissima politica americana prende decisioni simili è proprio perché viene intaccata la sua strategia (con la Russia coinvolta, o con la Cina, e in generale quando si affrontano affari internazionali importanti, i congressisti americani trovano facilmente un’intesa). Nel caso siamo proprio nell’intimo strategico americano: per Washington il gasdotto rappresenta un legame fisico tra Russia e Germania, qualcosa di profondamente inaccettabile.
Da sempre gli Usa temono che o Mosca o Berlino, o entrambe insieme più per sopraffazione reciproca che per fusione, possano egemonizzare il continente europeo. Da non dimenticare che non è per niente un fatto neutro che per via della Germania e della Russia gli Stati Uniti abbiano accettato di combattere tre guerre mondiali, due calde e una Fredda. Un’alleanza russo-tedesca sul gas è dunque vista in modo intimamente negativo proprio per la consistenza geopolitica che elementi infrastrutturali come i gasdotti costituiscono. Nonostante ovunque si neghi la dimensione politica dell’opera.
C’è anche di più, se possibile. Il raddoppiamento del sistema Nord Stream, che farà arrivare 55milioni di metri cubi di gas naturale russo in Europa ogni anno, costituisce una penetrazione con cui Mosca, con la sponda tedesca, troverebbe una traiettoria per svincolarsi dal sistema sanzionatorio imposto nel 2014 per l’annessione della Crimea e per la guerra nel Donbas. Nelle casse di Mosca entrerebbero nuovi miliardi di dollari che limiterebbero l’effetto delle misure sanzionatorie.
Inoltre ci sono state le azioni di lobbying ucraine a Washington, che con Kiev scenografia dell’impeachment, hanno ulteriormente acceso i riflettori sulla situazione. L’Ucraina detesta il progetto perché lo vede come un indebolimento totale: sia dal punto di vista economico, perché perderebbe almeno un paio dei miliardi di dollari l’anno che la Russia paga per i diritti di transito dalla rotta meridionale del gas; sia dal punto di vista della propria delicata stabilità geopolitica, dato che è la presenza di quegli interessi energetici reciproci uno dei fattori che ha impedito uno show-down ucraino al Cremlino. Quadro internazionale: i paesi Baltici e la Polonia, ossia quelli che sentono maggiormente la pressione russa alle porte, si oppongono al progetto. Non è un caso.
Altra questione non indifferente: gli Stati Uniti con la scoperta del gas da argille (lo shale gas, quello intrappolato in depositi argillosi non convenzionali) sono diventati produttori di primo livello. Con gli idrocarburi estratti da reservoir simili hanno raggiunto più o meno l’obiettivo nixoniano dell’indipendenza energetica, e ora puntano al mercato. L’intenzione è di vendere il gas naturale in forma liquefatta — poi rigasifacato in impianti nei paesi di arrivo: per esempio quello che fa il Qatar a Rovigo. Ma la concorrenza di altri dealer è agguerrita e quello del commercio energetico è un mondo su cui gli Usa ancora devono costruirsi un ruolo centrale. Che attorno al dossier Nord Stream ruoti anche questo genere di interessi lo ha confermato un paio d’anni fa lo stesso Donald Trump, quando dopo uno dei rigidi incontri con la cancelliera tedesca, Angela Merkel, disse che lui aveva del “fantastico gas americano” da vendere al posto di quello russo.
Le contingenze si sommano dunque all’approccio più ideologico del Congresso, che con il voto del Senato di ieri ha replicato quello del 12 della Camera e messo sul Nord Stream un punto fermo su cui ora la Casa Bianca dovrà apporre la firma. Un intervento duro che segue una lunga serie di moniti, minacce, posizioni prese nel corso degli ultimi anni, e l’intensa campagna che recentemente ha impegnato l’ambasciatore Usa in Germania, Richard Grennel.
La mossa più severa arriva però davanti a un fatto compiuto: il Nord Stream 2 (costo del progetto: circa 10miliardi di dollari) ha raggiunto la percentuale di realizzazione dell’80 per cento, e nei primi mesi del nuovo anno sarà completato.
La scorsa settimana, dopo il voto alla Camera, il ministro degli Esteri tedesco, Heiko Mass, ha accusato Washington di “ingerenza esterna” e detto che “le decisioni di politica energetica dell’Europa si prendono in Europa”. La Camera di Commercio russo-tedesca in quegli stessi giorni definiva il progetto “vitale per la stabilità europea”, e minacciava di lavorare per azioni di rivalsa se gli americani avessero deciso di avviare le sanzioni. Se la decisione dei congressisti statunitensi diventa operativa però potrebbe essere problematica per svariate aziende europee impegnate nel progetto.
Per adesso si limita ai lavori di posizionamento sul Baltico — sulla piattaforma continentale danese a sud-est di Bornholm — e già il gigante svizzero del settore, la Allseas, a cui la russa Gazprom ha affidato i lavori, rischia di finire nel tritacarne americano, che prevede il congelamento degli asset americani. La “Pioneering Spirit”, la più grande nave da costruzioni del mondo di proprietà della società svizzera, ha ancora circa otto settimane per completare il posizionamento dei condotti sottomarini (dipende dalle condizioni meteorologiche), ma se le sanzioni dovessero avere effetto immediato cosa farebbe? Allseas teme per il futuro di una controllata negli Usa, e se Trump dovesse dare semaforo verde alle misure punitive senza concedere deroghe potrebbe anche scegliere di fermare i lavori, lasciando così Gazprom senza un sostituto qualificato. Un rallentamento per il procedere dei lavori. Un’altra delle società a rischio è l’edile norvegese Kvaerner, ma in mezzo potrebbero finirci anche grandi gruppi tedeschi come Basf e quelli del sistema bancario.